I servizi educativi
I servizi educativi della Pinacoteca di Brera lavorano per valorizzare il proprio museo in quanto ambiente educativo dotato di proprie specifiche caratteristiche e per renderlo accessibile al più ampio numero possibile di persone.
LEGGI TUTTOResponsabile
Sofia Incarbone
sofia.incarbone@cultura.gov.it
Per maggiori informazioni sui contenuti della visita contattare i Servizi Educativi della Pinacoteca all'indirizzo
educazione@pinacotecabrera.org
Francesco Hayez, un pittore che ha stoffa
Medioevo fantastico e dove trovarlo:
la moda romantica nel Bacio
Vera e propria icona e non solo della Pinacoteca di Brera, Il bacio di Francesco Hayez fu utilizzato in passato sulle scatole di una nota marca di cioccolatini per festeggiare San Valentino.
Dipinto da Hayez alle soglie dei settant’anni, il dipinto si impose fin da subito anche per la sua carica sensuale in un’epoca ancora puritana, tanto che Giuseppe Rovani, celebre letterato e critico dell’epoca, affermò, alludendo sicuramente al noto libertinaggio del pittore: “Costui può far figli fino a novant’anni!”.
Il celebre Bacio di Francesco Hayez fu commissionato dal conte Alfonso Maria Visconti e presentato all’Esposizione annuale dell’Accademia di Belle Arti braidense nel 1859 appena tre mesi dopo l’ingresso trionfale a Milano di Vittorio Emanuele II e dell’alleato, l’imperatore francese Napoleone III, che aveva affiancato l’esercito lombardo piemontese per raggiungere l’indipendenza della Lombardia dagli austriaci.
Acquisito dal museo nel 1887, il quadro, apparentemente semplice e immediato, nasconde in realtà una lettura patriottica e non rappresenta solo due amanti raffigurati nell’atto di scambiarsi un bacio appassionato. Da una parte i colori usati per le vesti (azzurro, bianco, rosso, verde) richiamano quelli tradizionali di Francia e Italia, unite nella battaglia per le guerre di indipendenza, costituendo un augurio per la nascente nazione; dall’altra il bacio scambiato si connota di sottile malinconia.
Sembra infatti qualificarsi come un addio, visti alcuni particolari rivelatori: in particolare la fretta di lui che appoggia un piede sullo scalino quasi si trattasse di un gesto di affetto rubato nell’atto di fuggire via. È come se la ragazza fosse appena scesa dalle sue stanze per venirgli incontro e salutarlo con il più comune scambio tra innamorati, ma anche il più intimo e universale.
Si notano inoltre a un più attento esame il pugnale al fianco del giovane uomo che spunta dal fianco di lei, premendogli contro in maniera minacciosa durante l’abbraccio amoroso e infine l’ombra alle loro spalle che aggiunge un che di misterioso. Insomma un dramma ancora da farsi.
Il bacio. Episodio della giovinezza. Costumi del XIV secolo
La tela è stata interpretata fin da subito dalla colta borghesia milanese in questo senso politico, elevando simbolicamente il gesto semplice ed eterno, quotidiano, ma anche profondo, tra i due giovani, a commiato di un patriota in partenza per un’impresa militare sulla scia di quanto già in precedenza affermato da Giuseppe Mazzini che vedeva in Hayez il profeta dell’Italia e del suo riscatto politico, proclamandolo “capo della Pittura Storica, che il pensiero Nazionale reclamava in Italia”.
Il titolo completo dell’opera è Il bacio. Episodio della giovinezza. Costumi del XIV secolo e dichiara fin da subito in modo palese la volontà del pittore di allestire una scenografia teatrale di ispirazione neomedievale per i due attori principali, rappresentati in quello che sembra essere il pianerottolo delle scale di un castello dalle massicce pietre squadrate. Da circa un trentennio, Francesco Hayez era infatti il caposcuola del Romanticismo storico in pittura, corrente di portata europea non solo artistica ma anche letteraria che si richiamava alla soggettività del singolo e a quel Medioevo visto come il momento aurorale del sorgere dell’idea di nazione, di patria. L’artista quindi con un atto di grande consapevolezza recupera in modo molto evidente la civiltà della nascente Italia, quella di Dante e dell’epopea cavalleresca, un mondo che aveva tanto amato e studiato, immaginandolo e ricostruendolo fin nei minimi dettagli nei suoi quadri.
Ma c’è di più: l’uso nel titolo stesso dell’opera della parola “costumi” ne afferma con forza il carattere di finzione teatrale, di allestimento scenico: non a caso Francesco si era occupato di disegnare i figurini degli abiti, o meglio dei costumi, medievali per la festa milanese della contessa Batthiany, evento rimasto leggendario per l’epoca e di cui si conservano ancora i bozzetti a colori. Inoltre Hayez era membro di una speciale commissione che veniva consultata per gli allestimenti scaligeri.
Nel corso degli anni Cinquanta dell’Ottocento, l’artista ricevette delle critiche da chi lo accusava di fare una pittura di storia poco fedele alle vicende rappresentate, dando maggiore importanza a sentimenti e affetti senza alcun rispetto obiettivo per la verità storica. Esponendo a Parigi, Francesco Hayez aveva incontrato chi lo aveva liquidato in maniera decisa e netta come un pittore romantico affezionato a soggetti veneziani e analogo ai pittori troubadour francesi di moda attorno al 1820.
Ma è davvero così? Proviamo ad analizzare nei dettagli i costumi dei due protagonisti, ricordando che nella precisazione cronologica del titolo dell’opera l’autore dichiara di rifarsi al Trecento.
Il giovane indossa un mantello bruno, pesante, da cui si intravede la verde giubba, forse un farsetto imbottito appunto di farsa o arcia (in lana grezza), con uno sbuffo della sottostante camicia bianca visibile al polso, calzebraghe aderenti rosse e scarpette alla poulaine, di stoffa, a punta, di gran moda nel Quattrocento alla corte borgognona.
Il cappello
Ma è soprattutto il suo cappello a individuarlo come patriota e non a caso il dipinto fu prontamente ribattezzato “Il bacio del volontario”. Si tratta infatti del cosiddetto cappello all’Ernani, o alla calabrese, indossato dai briganti meridionali nell’Ottocento e dal protagonista dell’omonimo dramma di Giuseppe Verdi, rappresentato per la prima volta nel 1844, a Venezia. Ernani, nobile in lotta contro le ingiustizie e la tirannia del dominio spagnolo, si camuffa da bandito. Per non essere riconosciuto indossa un cappello di feltro grigio-verde, tondo, a tesa larga, con una penna nera, forse di corvo, posta sul lato sinistro, fin da subito adottato dai patrioti italiani.
Tale copricapo si diffonde a tal punto come segno distintivo delle lotte risorgimentali da essere bandito perché sovversivo.
A Milano, durante le Cinque Giornate, nel 1848, gli insorti lo indossano e lo agitano in segno di sfida. Perfino le donne sono orgogliose di portarlo: la moda nasce dalla pasionaria nobildonna Cristina di Belgioioso che si fa ritrarre mentre lo indossa. Subito dopo la cacciata degli austriaci dalla città ambrosiana, un giornale milanese parla di “una moda assoluta”. Infine il cappello distinguerà, verso la metà del secolo, i Cacciatori delle Alpi, una brigata di volontari fuoriusciti dai vari regni della penisola per unirsi a combattere con il Regno di Piemonte-Sardegna contro gli austriaci nelle Guerre di Indipendenza. Guidati dall’eroe dei due mondi, Giuseppe Garibaldi, anticipano di fatto gli Alpini moderni che vestono l’ormai celebre e storico cappello fin dalla costituzione del loro corpo, nel 1872, ispirata proprio a quelle lotte risorgimentali che hanno dato vita alla nostra nazione.
Tornando al nostro patriota innamorato, notiamo capelli lunghi e mossi alla moda veneta come nei ritratti rinascimentali di Giovanni Bellini e Giorgione, cui sembra in effetti rifarsi anche l’atmosfera dolcemente malinconica dei due amanti, felici di ritrovarsi, ma in pensiero per la prossima partenza e l’impegno civile del giovane. Francesco Hayez si considera ultimo di una lunga, solida e incomparabile, tradizione pittorica lagunare che culmina con Tiziano. Non a caso, nell’Autoritratto esposto alla Pinacoteca di Brera, il caposcuola del Romanticismo si mostra fieramente in veste ufficiale di pittore vate, con tavolozza e pennello quali attributi inseparabili, richiamandosi esplicitamente anche nell’esecuzione e nei toni cromatici proprio al Vecellio.
La protagonista
La giovane, dal canto suo, esibisce una pettinatura raccolta, castana, che non sembrerebbe per nulla medievale, né trecentesca. Parrebbe piuttosto ottocentesca. Forse una licenza poetica di Hayez che intende sottolineare l’accostamento audace dei visi dei due amanti, seminascosti dal cappello di lui e collocati di profilo. Il volto della giovane ragazza è sorretto amorevolmente come in una carezza dalla mano destra dell’uomo, mentre la sinistra raccoglie la testa della donna per baciarla.
Erano invece biondi i capelli secondo la moda trecentesca! Le donne angelicate immortalate in versi dai poeti del Dolce Stilnovo, culminate nella celebre Laura cantata da Francesco Petrarca, erano appunto contraddistinte dai “capei d’oro”. Per ottenerli, in tempi in cui non esisteva l’acqua ossigenata, le donne ricorrevano a rimedi artigianali che oggi ci fanno sorridere per la loro ingenuità, per esempio si utilizzavano impacchi di succo di limone seguiti da un’asciugatura al sole per schiarire le chiome. I capelli si portavano lunghi, anzi lunghissimi, con la scriminatura nel mezzo che divideva idealmente il viso in due metà simmetriche e perfette, per meglio apprezzarne l’armonia. La fronte doveva essere ampia e andava rasata col raschiatoio, mentre le sopracciglia dovevano essere ben arcuate.
Anche lo sfarzoso abito, a un primo sguardo di sapore neomedievale in senso purista, ovvero rivisitato secondo gusti ottocenteschi, non è affatto trecentesco, suggerendo, pur con un maggiore effetto slanciato e ancora una volta emblematico, quello di una matrona veneziana del Cinquecento. E non a caso, perché si riferisce all’età dell’oro della grande pittura veneta.
Quindi non un errore, ma anzi una dichiarazione poetica di appartenenza a una scuola amata in tutto il mondo, sottolineata in maniera plateale dalla splendida resa mimetica del vestito che si richiama all’acceso cromatismo della pittura veneta del Rinascimento, citando a man bassa artisti provenienti dalla Serenissima Repubblica marinara e dai suoi domini di terraferma, da Paolo Caliari detto il Veronese a Giovanni Gerolamo Savoldo. Un tessuto di tal fatta, che par quasi di sentirlo frusciare e si desidera essere dentro il quadro per accarezzarlo, non poteva certamente sfuggire all’attenzione dei critici.
E infatti nel 1908, non appena il Bacio fu esposto per la prima volta in Pinacoteca, Carlo Carrà, tra i grandi del Futurismo, scrisse parole esemplari:
“Pensate alle linearità dolci del bacio (Giulietta vestita di latta) – forse che il pittore voleva vestirla di celeste velluto?”
Ma non di velluto, né ovviamente di latta, è fatto l’abito della nostra innamorata, bensì di uno splendido e pregiato raso di seta, tessuto costosissimo che a partire dal Trecento giungeva via mare dalla Cina, divenuto ben presto di moda tra le classi nobiliari, quale segno di ricchezza e lusso. A proposito della straordinaria resa mimetica della stoffa in questione, la leggenda vuole che persino Pablo Picasso in visita alla Pinacoteca di Brera si azzardò a toccarla per meglio accertarsi che fosse dipinta.
Analizziamo gli elementi che compongono il costume. La giovane sembra indossare la camicia bianca di lino che nel Medioevo ma anche nel Rinascimento costituiva un indumento intimo. A partire dal Quattrocento faceva capolino dall’abito soprastante attraverso le trinciature, tagli fatti ad arte nelle maniche che la esibivano come status symbol di ricchezza e d’igiene personale, visto la necessità di assicurarne il candore e quindi di cambiarla spesso. Le trinciature sono in effetti ben visibili, sbuffando in fila ai lati della parte finale della manica del vestito della giovane, che cinge le spalle di lui. La manica è impreziosita ulteriormente da un giro dorato all’orlo.
Per renderla ancora più pregiata, spesso questo tipo di lavorazione era costituita da una finissima foglia aurea ottenuta dalle monete d’oro zecchino e avvolta attorno a un filo. Gli artigiani addetti a questa operazione erano chiamati appunto battiloro: pare che il fratello del celebre pittore rinascimentale Sandro Botticelli esercitasse proprio questa professione. Un’analoga decorazione in filato dorato sottolinea pure lo scollo del vestito della donna: anche da qui fa capolino la camicia bianchissima, in maniera forse non filologicamente corretta per la storia del costume medievale, ma certamente infallibile per incorniciare in maniera indimenticabile i due visi accostati degli innamorati.
Le maniche invece non sono un tutt’uno con l’abito poiché nel Trecento non era ancora stato inventato lo scalfo giro maniche. Erano infatti autonome e venivano applicate al vestito tramite dei bottoni o dei lacci, come in questo caso. Si potevano quindi applicare maniche di diverse stoffe e fantasie rispetto all’abito: da qui deriva infatti il detto “è un altro paio di maniche”. Anche qui le maniche sono allacciate in modo elegante mostrando la candida camicia sottostante.
La linea dell’abito è contraddistinta dal busto, chiamato successivamente corsetto, introdotto dalla moda spagnola, e destinato a caratterizzare, ma anche a costringere, la figura femminile, fino almeno all’epoca vittoriana. Il busto sfruttava elementi rigidi, quali per esempio le stecche di balena, e in questo caso, per quanto visibile, lambisce l’incurvarsi dei fianchi, sottolineandoli ulteriormente grazie a una catena d’oro molto usata nella moda veneziana. Tale accessorio, testimoniato nei dipinti del Rinascimento veneto, serviva peraltro a sostenere alcuni strumenti pronti all’uso, come gli stuzzicadenti d’oro o addirittura piccoli animali imbalsamati, quale esca in grado di attirare le pulci dal corpo di coloro che indossavano simili catene.
La gonna, ampia, voluminosa, monumentale, lunga fino a terra, con un lieve strascico, ricade in elegantissime pieghe, decisamente più mosse sul retro.
Il gomito è sottolineato da un ampio giro di stoffa del tutto inventato: ma anche qui trattasi di licenza poetica per mostrare con evidenza il bianco, colore presente nelle due bandiere, italiana e francese.
Hayez nel Bacio mette in scena un gesto universale con una lettura politica ma anche artistica: abbiamo visto che in queste due direzioni vanno le deroghe storiche ai costumi trecenteschi. Inoltre, dichiarandosi esplicitamente veneto nella sua eredità artistica, il genio del Romanticismo pittorico italiano, partecipe delle passioni risorgimentali, celebra proprio quel fatidico anno, il 1859, che diede inizio al processo di unificazione italiana. Allo stesso tempo, il pittore intona un melanconico canto per l’appena concluso armistizio di Villafranca siglato dai francesi, alleati di Vittorio Emanuele II, e dagli austriaci. Nel cedere al Piemonte la sola Lombardia, l’atto escludeva il Veneto, patria di Francesco Hayez, in contrasto con la volontà di Cavour che, ritenendo violati gli accordi precedentemente presi, si dimise.
Il successo del dipinto fu tale da essere persino citato pochi anni dopo, nel 1861, dal pittore patriota Girolamo Induno nel suo Triste presentimento, che raffigura una giovane donna intenta a sospirare sulla miniatura del ritratto dell’amato partito per liberare l’Italia dal dominio austriaco. Nella stanza tappezzata d’immagini allusive alle lotte patriottiche, compare, infatti, una stampa raffigurante il capolavoro braidense.
Persino un regista del calibro di Luchino Visconti ha omaggiato Hayez e il Bacio nel suo capolavoro Senso del 1955. Nel film, di ambientazione risorgimentale, la citazione è palese nella scena madre, quella dell’ultimo bacio tra la contessa Livia Serpieri e l’ufficiale austriaco Franz Mahler. Il film, guarda caso, è caratterizzato da una maniacale ricostruzione storica. In costume, ovviamente.
Responsabile
Sofia Incarbone
sofia.incarbone@cultura.gov.it
Per maggiori informazioni sui contenuti della visita contattare i Servizi Educativi della Pinacoteca all'indirizzo
educazione@pinacotecabrera.org