La famiglia
Io credo che per avere un occhio critico, devi avere anche una proposta.
Io cito il Sessantotto perché per me è l’ultimo movimento di ribellione. Hanno detto:
’Non questa musica, ma questa musica. Non questa pittura, ma questa pittura.
Non questi vestiti, ma questi vestiti’.
Era una proposta molto diversa da quella che ci aveva preceduto. Era potente in quel senso.
Perché partivamo con dei NO. No al concetto mediocre della borghesia,
no a un concetto mediocre della moralità; per cui per noi ragazze era no al matrimonio.
Le mie due sorelle, Miriam e Simona, erano due ragazze
straordinarie e mi ricordo, ridendo, che avevo trovato una lettera di papà in cui scriveva che Simona,
che all’epoca aveva 14 anni, stava facendo uno studio sulla democrazia socialista.
A 14 anni! Adesso dimmi te qual è la bambina di oggi che va in biblioteca a studiare?
Io invece non ero così. Ero un po' – come dirti – astratta.
Stavo sempre in giardino, con in gatti, un po' di fuori...
Mia madre e mio padre erano molto preoccupati perchè a scuola non ero brava,
non si sapeva che cosa cavolo facessi, e allora mi minacciavano:
'Sai che cosa succederà? Che ti sposerai!' A casa mia era una minaccia.
Tant'è vero che invece di chiamarmi Giulia, mi chiamavano Zuleima.
Un nome da danzatrice del ventre! E rido perchè se non studiavo, se non ero colta,
se non conoscevo le lingue, se non suonavo il pianoforte, non suonavo il violino,
basta, ti sposi, punto e basta.
Mario Mafai e Antonietta Raphäel (Centro Studi Mafai Raphäel, Roma 1948)
I miei genitori si sono sposati quando noi eravamo già grandi, nel 1935,
quindi stavano insieme da 10 anni; infatti era stata promulgata una legge in Italia –
questo l'ho ricostruito dopo – per cui gli stranieri che stavano in Italia
da meno di 20 anni dovevano andare a registrarsi o sarebbero finiti nei campi.
E allora diventando cittadina italiana, mia madre veniva protetta.
Tant'è vero che si sposarono al consolato inglese e mamma si ricordava che –
lei era cittadina inglese ed era molto orgogliosa di avere il suo passaporto inglese –
il console inglese le disse: 'Stai attenta, ricordati che da oggi non sei più cittadina britannica'.
E mamma lo raccontava, dopo vent'anni, ancora con emozione.
Civiltà delle macchine, copertina di Mario Mafai, 1960
I pittori non andavano più bene, i letterati non andavano più bene.
E c'è – come sempre dopo le guerre – un desiderio di rinnovamento totale.
Non solo della società sociale, ma anche ovviamente della società intellettuale.
Mafai, come tanti altri artisti, si trovò spiazzato. Altri artisti ebbero la forza,
il coraggio di continuare a essere se stessi.
De Chirico non cambiò una virgola.
Morandi non cambiò una virgola. Campigli e potrei citarti altri artisti dell'epoca
sono rimasti nel loro orto, direbbe Machiavelli.
Mafai no. Mafai non ce la fece a ritornare
a fare i fiori secchi e le demolizioni. Gli sembrava tutto superato. Negli anni 1955
non è più la guerra – questa è una mia idea, eh – che lo ha tranchant ma è la «Civiltà delle Macchine».
Sinisgalli gli chiese di fare la copertina della «Civiltà delle Macchine» e tu vedrai
che il particolare in questo quadro sembra il particolare delle "Fantasie".
E lì, i fiori secchi diventano corde. Io credo che lui sia sempre rimasto lì.
Anzichè un fiore secco buttato per strada, è una corda buttata per strada.
L'essenza è sempre quella.
Subì grandi polemiche. Anche gli amici più cari lo accusarono.
Ebbe il sostegno di pochi tra cui Antonello Venturi, di Argan.
Hanno detto che voleva fare il giovane.
Poi alla fine se ne è andato, ha detto:
'Arrivederci e grazie, me ne vado'.