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UNA CONVERSAZIONE
CON GIULIA MAFAI

La vita artistica nella Roma del dopoguerra

In memoriam Giulia Mafai [13 gennaio 1930 - 26 settembre 2021]

Trascrizione della conversazione tra Giulia Mafai e James M. Bradburne, 9 giugno 2021



Giulia Mafai era la terza e ultima figlia della coppia di artisti Mario Mafai e Antonietta Raphaël. Ha intrapreso la carriera di costumista e scenografa a partire dal 1950, lavorando ad alcuni dei più noti film italiani. Ha lavorato con diversi registi e attori dell’epoca, tra cui Vittorio De Sica, Mario Monicelli, Sophia Loren, Marcello Mastroianni, Elliott Gould, Harvey Keitel e Keith Carradine. È stata ideatrice e curatrice del Laboratorio del Carnevale di Venezia dal 1978 al 1985. Ha collaborato con Gianni Rodari a “Il Pioniere” tra il 1950 e il 1951, pubblicando testi, illustrazioni e fumetti tra cui “Sambo” (1951), “Conoscete gli animali?” (1951) e “Il re detto orecchie d’asino” (1951).

Roma, anni 50

Roma alla mia epoca era fatta un po’ a quartiere, nel senso che chi abitava, come me e mio padre, in Via Margutta era un nucleo. Poi c’era chi abitava a Piazza Mazzini ed era un altro nucleo.

I due mondi

I nuclei degli intellettuali a Roma erano due: uno legato alla pittura e all’arte, l’altro legato al cinema.

Il primo era in Piazza del Popolo e dintorni, dove c’era il Bar Rosati e dove incontravi Moravia, la Morante, Pasolini, Enzo Siciliano e anche tutti i pittori, Mafai e tutti gli altri.

Il secondo era in Via Veneto, un gruppo ricco perchè i bar di questa zona, il Donnei e il Rosati, costavano molto. Fellini, che poi ha fatto La Dolce Vita proprio in Via Veneto, Monicelli, i produttori e anche i grandi attori americani. C’erano i grandi alberghi a 5 stelle e lì trovavi tutti. Se arrivava un grande attore americano – per esempio Ava Gardner – scendeva – perchè Roma era un “paese” – e andava a piedi da Rosati a prendere il caffè. Qui poteva incontrare o il bell’attore italiano Walter Chiari o grandi registi e produttori.

Bar Rosati, Roma negli anni 50

Non c’erano le macchine per fortuna. Le macchine sono state una grande conquista, ma con il loro arrivo questa grande comunità si è dispersa. Capisci cosa intendo dire? Ottima la tecnologia però non aiuta la collettività, perché sviluppa un certo individualismo.
Era straordinario, potevi mangiare a debito. I gestori dei ristoranti sapevano che erano artisti, che non avevano soldi, ma quando poi vendevano un quadro, pagavano il debito anche di due mesi perché erano persone oneste, senza soldi ma oneste. Insomma c’era una strana collettività.

Chiunque frequentasse questi posti, poteva incontrare l’attore, lo sceneggiatore, lo scrittore, il pittore. Ecco, era un mondo veramente democratico da questo punto di vista. C’era Bontempelli, la Masina, c’erano anche grandi intellettuali che stavano semplicemente al caffè a prendersi il gelato.
Mio padre frequentava quei posti, anche Rodari e – anzi ti dirò – io andavo a mangiare all’“Osteria Fratelli Menghi" e non pagavo. 'Paga papà! Paga papà! Paga papà!' Mi coccolavano.

Osteria Fratelli Menghi, Roma

C’era il cinema, c’era de Santis, c’era Pontecorvo. Ti dico quante volte hanno insistito perchè io facessi l’attrice perchè ero molto bellina, ma l’attrice proprio no. Mi va di recitare nella vita, ma non sullo schermo. Ti racconto una cosa divertente, un giorno in casa di Zavattini è venuto un regista che a quell’epoca era importantissimo, Alessandro Blasetti, che produceva questi grandi filmoni, “Scipione l’Africano”, “Addio Kira”. E Zavattini mi presentò: “Sai questa ragazza vorrebbe fare la costumista” e lui mi guardò e fece: “No, troppo carina per essere intelligente”. A quell’epoca le ragazze intelligenti dovevano avere i baffi. Se non avevano i baffi non potevano essere intelligenti.

Fosco Giachetti ed Alida Valli in una foto di scena del film Addio Kira!

Gianni Rodari

Rodari era di un altro mondo. Rodari era un poeta. Era un artista, sai? Come un pittore vede la luce e vede il colore, lui vedeva le parole che diventavano poesia. Qualunque fatto raccontato da lui diventava una poesia, diventava un verso. Era sempre molto ironico. Io ho imparato molto da lui. Ho imparato per esempio a non insegnare. Io do consigli. Quando poi ho avuto le mie scuole e le mie accademie, io do consigli ai miei ragazzi. Ecco io da lui ho imparato che l’insegnamento deve essere un suggerimento. Se tu insegni con l’ordine, non ottieni niente. Se tu suggerisci, porti la persona a elaborare, a pensare, a maturare. Se l’idea è sua, ci lavora con passione, con amore e poi torna da te: “Che dice signora Mafai? Va bene così? Ce l’ho fatta, che dice?” È bello. Infatti la scuola è un altro dei momenti che mi sono piaciuti molto.

Ho fatto anche una commedia che lui aveva scritto assieme a un mio amico, che si chiamava "Il Cortile" se non mi sbaglio. L’abbiamo data a un teatro di Genova e credo che sia l’unica esperienza di teatro che lui abbia mai fatto.

Vedi com'era tra amici?
C'era un amico che faceva teatro? 'Vieni con me e scriviamo insieme'.
C'era un amico che faceva cinema? 'Vieni con me e facciamo la sceneggiatura'.
Era tutto molto vario, ecco. Era molto bello perchè non c’erano comandanti insomma. Eravamo tutti un 'collettivo', come si diceva a quell’epoca.

Il Pioniere n. 24, 1947

Negli anni Cinquanta collaboravo con lui, mi aveva dato molto carinamente una striscia di fumetti in un giornale che lui pubblicava, «Il Pioniere», che era della sinistra, dei bambini della sinistra. Da Est c’era stata un’apertura verso il mondo occidentale con gli ideali del mondo socialista, non direi del mondo sovietico. Le sue poesie sono deliziose perchè hanno sempre alla fine un risvolto sociale. Con garbo, con grazia, però il sociale te lo porta sempre.

Il cinema

Ho fatto l’Accademia di Belle Arti di Genova perché abitavo qui con mia madre. Ho fatto un concorso per entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia e da lì ho incominciato a fare il mio lavoro, avevo diciannove anni. Ma sai era un po’ diverso il mondo allora. Io mi rendo conto che a 21 anni ero considerata una persona. E mi si affidava una commedia, un teatro e attori con 40 costumi. Oggi non è così. Oggi nessuno affiderebbe una cosa del genere a una ragazza di vent’anni, ma allora evidentemente sì.

Anche lì c’è stato una specie di trauma, non in noi ma in quelli prima di noi, nella generazione che ci ha preceduto. Per esempio io mi ricordo che in Italia c’erano degli attori di cinema, di teatro molto importanti e improvvisamente non li voleva più nessuno.
Per questo i ragazzi rappresentavano una nuova energia, nuove idee, perchè oltretutto tra noi e chi ci aveva preceduto c’era anche una bella differenza culturale. Noi avevamo letto, non so, Majakóvskij. Per noi e per la nostra generazione furono importanti, quasi clandestini, la poesia spagnola di Neruda e Garcia Lorça. Quindi noi, senza volere, rappresentavamo anche una nuova cultura. Non solo avevamo vent’anni, ma avevamo anche altre idee, perchè l’Italia culturalmente era molto provinciale, molto chiusa. Le cose dall’estero per carità!! Quindi alla fine si era ripiegata su se stessa ed era diventata provinciale. Alla fine della guerra ha scoperto tutto! Ha scoperto Braque, Picasso, perfino gli Impressionisti.

Milano, anni 50

La famiglia

Io credo che per avere un occhio critico, devi avere anche una proposta. Io cito il Sessantotto perché per me è l’ultimo movimento di ribellione. Hanno detto: ’Non questa musica, ma questa musica. Non questa pittura, ma questa pittura. Non questi vestiti, ma questi vestiti’.
Era una proposta molto diversa da quella che ci aveva preceduto. Era potente in quel senso. Perché partivamo con dei NO. No al concetto mediocre della borghesia, no a un concetto mediocre della moralità; per cui per noi ragazze era no al matrimonio. Le mie due sorelle, Miriam e Simona, erano due ragazze straordinarie e mi ricordo, ridendo, che avevo trovato una lettera di papà in cui scriveva che Simona, che all’epoca aveva 14 anni, stava facendo uno studio sulla democrazia socialista. A 14 anni! Adesso dimmi te qual è la bambina di oggi che va in biblioteca a studiare? Io invece non ero così. Ero un po' – come dirti – astratta. Stavo sempre in giardino, con in gatti, un po' di fuori... Mia madre e mio padre erano molto preoccupati perchè a scuola non ero brava, non si sapeva che cosa cavolo facessi, e allora mi minacciavano: 'Sai che cosa succederà? Che ti sposerai!' A casa mia era una minaccia. Tant'è vero che invece di chiamarmi Giulia, mi chiamavano Zuleima. Un nome da danzatrice del ventre! E rido perchè se non studiavo, se non ero colta, se non conoscevo le lingue, se non suonavo il pianoforte, non suonavo il violino, basta, ti sposi, punto e basta.

Mario Mafai e Antonietta Raphäel (Centro Studi Mafai Raphäel, Roma 1948)

I miei genitori si sono sposati quando noi eravamo già grandi, nel 1935, quindi stavano insieme da 10 anni; infatti era stata promulgata una legge in Italia – questo l'ho ricostruito dopo – per cui gli stranieri che stavano in Italia da meno di 20 anni dovevano andare a registrarsi o sarebbero finiti nei campi.
E allora diventando cittadina italiana, mia madre veniva protetta. Tant'è vero che si sposarono al consolato inglese e mamma si ricordava che – lei era cittadina inglese ed era molto orgogliosa di avere il suo passaporto inglese – il console inglese le disse: 'Stai attenta, ricordati che da oggi non sei più cittadina britannica'. E mamma lo raccontava, dopo vent'anni, ancora con emozione.

Civiltà delle macchine, copertina di Mario Mafai, 1960

I pittori non andavano più bene, i letterati non andavano più bene. E c'è – come sempre dopo le guerre – un desiderio di rinnovamento totale. Non solo della società sociale, ma anche ovviamente della società intellettuale. Mafai, come tanti altri artisti, si trovò spiazzato. Altri artisti ebbero la forza, il coraggio di continuare a essere se stessi. De Chirico non cambiò una virgola. Morandi non cambiò una virgola. Campigli e potrei citarti altri artisti dell'epoca sono rimasti nel loro orto, direbbe Machiavelli.

Mafai no. Mafai non ce la fece a ritornare a fare i fiori secchi e le demolizioni. Gli sembrava tutto superato. Negli anni 1955 non è più la guerra – questa è una mia idea, eh – che lo ha tranchant ma è la «Civiltà delle Macchine». Sinisgalli gli chiese di fare la copertina della «Civiltà delle Macchine» e tu vedrai che il particolare in questo quadro sembra il particolare delle "Fantasie". E lì, i fiori secchi diventano corde. Io credo che lui sia sempre rimasto lì. Anzichè un fiore secco buttato per strada, è una corda buttata per strada. L'essenza è sempre quella.

Subì grandi polemiche. Anche gli amici più cari lo accusarono. Ebbe il sostegno di pochi tra cui Antonello Venturi, di Argan. Hanno detto che voleva fare il giovane.

Poi alla fine se ne è andato, ha detto:
'Arrivederci e grazie, me ne vado'.