5 Capolavori per te









01 - Introduzione
Benvenuto o benvenuta!
Stai per iniziare la visita della Pinacoteca di Brera, le cui sale si trovano tutte al primo piano del Palazzo. Le opere esposte sono divise per aree geografiche e ordinate cronologicamente dalla fine del Duecento all’Ottocento e presentano soprattutto soggetti religiosi perché originariamente erano destinate a chiese e conventi del centro e del nord Italia.
Dopo aver superato l’ingresso della Pinacoteca, la grande porta a vetri, e attraversato il corridoio, si raggiunge, andando a sinistra, la sala 6.
Su un fondo di colore blu elettrico sono allestite opere del Quattrocento veneto.
Sulla parete destra della sala si trova il primo capolavoro che ti presentiamo, la Pietà di Giovanni Bellini, mentre al centro della sala è il secondo capolavoro descritto, il Cristo Morto di Mantegna.
02 - “Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti” di Andrea Mantegna
Cristo è disteso sulla nuda pietra, semicoperto da un lenzuolo, nel quale fra poco sarà avvolto per essere deposto nel sepolcro. È stato unto con gli olii profumati del vasetto accanto al cuscino. Le ferite sono state pulite dal sangue, ma la carne bucata dai chiodi rimane slabbrata; le mani mostrano il dorso con le piaghe e i piedi sporgono dalla pietra, spingendo in primo piano tutta la crudezza della Passione.
Con la sua forte presenza Cristo occupa quasi tutta la superficie della tela. In fondo si intravede una parete spoglia e a destra un’apertura verso l’oscurità.
L’estremo saluto è affidato a tre personaggi, relegati nell’angolo a sinistra: Giovanni Evangelista con le mani intrecciate e il viso segnato da rughe di dolore; la Madonna, anziana, con la bocca piegata dal pianto; la Maddalena, di cui si scorgono solo il naso e la bocca, aperta in un grido straziante. Le riflettografie, che rivelano il disegno sottostante, hanno mostrato che le figure dei dolenti fin dall’origine furono concepite così tagliate e i margini non dipinti della tela confermano che non ci furono decurtazioni.
Mantegna usa appositamente un’inquadratura ravvicinata, e per questo tanto coinvolgente, di un Cristo in audace prospettiva: in quest’opera raggiunge l’apice delle ricerche intorno alla figura scorciata, riprendendo un tema già affrontato nell’oculo della Camera degli Sposi a Mantova, nota per il virtuosismo dei putti visti da sotto in su. Mantegna applica con sapienza le regole prospettiche, ma, per giungere al risultato desiderato, effettua alcune modifiche, ingrandisce, per esempio, la testa affinché non risulti più piccola dei piedi in modo che Cristo mantenga la giusta dignità. Sono fondamentali eccezioni a ciò che la teoria imporrebbe, efficaci per consegnare ai posteri un’immagine di straordinaria forza.
Anche la scelta della particolare tecnica pittorica è funzionale all’accrescimento del pathos: si tratta infatti di una tempera magra in cui i colori, uniti a colla animale, sono stesi su una sottile preparazione e resi volutamente opachi e spenti anche grazie all’assenza di verniciatura finale.
La storia del dipinto è complessa e ancora incerta.
Probabilmente fu realizzato intorno al 1483, quando a Mantova giunse un frammento della pietra dell’unzione di Cristo. Sappiamo che, tra i beni conservati nello studio dell’artista alla sua morte, avvenuta nel 1506, c’era un “Cristo in scurto”, cioè in prospettiva, che potrebbe essere identificato con quello di Brera. Se così fosse, l’opera sarebbe rimasta quindi molti anni nello studio del pittore, inducendo per questo alcuni studiosi a credere che si tratti di un dipinto realizzato da Mantenga per la propria devozione privata e non per un committente. La tela entrò in museo nel 1824 dopo che Giuseppe Bossi, segretario dell’Accademia e della Pinacoteca di Brera, l’ebbe ritrovata a inizio Ottocento presso un antiquario di Roma.
Modello figurativo di grande longevità, il dipinto venne ripreso nella pittura di varie epoche, come si può vedere nel Ritrovamento del corpo di san Marco di Tintoretto, esposto nella sala 9 della Pinacoteca. Citazioni e suggestioni che si ispirano a quest’opera arrivano fino al Novecento, nel cinema di Pasolini e nelle fotografie di Che Guevara morto, a dimostrazione della potenza di questo autentico, immortale capolavoro.
02T - Da Mantegna a Piero della Francesca
Camminando attraverso i saloni, scorgi la colossale statua in gesso del Napoleone in veste di Marte pacificatore, la cui versione in bronzo hai già incontrato nel cortile d’onore del Palazzo. L’opera, realizzata sul modello in marmo di Antonio Canova, è qui esposta per celebrare l’inaugurazione della Pinacoteca avvenuta il 15 agosto 1809. In quegli anni essa venne trasformata, per volere di Napoleone Bonaparte, da pinacoteca riservata agli studenti dell’accademia, in una grande galleria nazionale aperta a un pubblico sempre più ampio.
Proseguendo lungo il percorso, si entra nella sala 18 dove si trova il laboratorio di restauro; al suo interno i restauratori del museo, spesso sotto gli occhi del pubblico, studiano e si prendono cura dei dipinti della collezione. Il laboratorio è stato progettato dallo studio Sottsass Associati.
Come in un viaggio dal nord al centro Italia, hai ammirato le opere venete e lombarde nei saloni napoleonici e le opere dell’Emilia e delle Marche nelle sale color rosso. Adesso, superato il deposito a vista, il viaggio ti ha portato fino a Urbino nella sala 24. Tutte le opere di questa sala sono strettamente legate alla corte di questa città, importante centro di sviluppo dell’arte rinascimentale.
Qui si trovano i prossimi due capolavori di questo percorso.
03 - La “Pala Montefeltro” di Piero della Francesca
La Madonna è seduta al centro di un gruppo ordinato di santi e angeli, ha gli occhi bassi e le mani giunte, mentre tiene in grembo Gesù addormentato. In ginocchio c’è il committente Federico da Montefeltro, duca di Urbino. Indossa un’armatura con mantello; la spada è legata alla cintura, le manopole, il bastone e l’elmo sono poggiati a terra. Quest’ultimo reca la traccia del colpo subìto durante un torneo che l’aveva reso guercio, costringendolo a farsi ritrarre di profilo. I personaggi sono in una chiesa classicheggiante, con pareti decorate da lastroni di marmi policromi. La volta a botte che copre il vano absidale è scandita da cassettoni, che danno profondità allo spazio, ed è decorata da una grande conchiglia dalla quale pende un uovo attaccato a una catenella.
L’opera arrivò a Brera nel 1811 dalla Chiesa di San Bernardino, alle porte di Urbino.
La data di realizzazione è ancora incerta. Una delle ipotesi la vorrebbe dipinta intorno al 1472, anno in cui nacque l’erede Guidobaldo, ma morì la moglie Battista Sforza. In quello stesso anno Federico, uomo colto che costruì la sua fortuna come capitano di ventura, conquistò Volterra per conto di Firenze. Alcuni elementi presenti nella tela confermerebbero questa lettura: l’armatura del duca, indossata come a celebrare la recente vittoria; la scelta di inserire Giovanni Battista, primo santo a sinistra, per ricordare la defunta moglie Battista, che è assente nel dipinto; la conchiglia e l’uovo, simboli di nascita, sarebbero stati posti per salutare l’arrivo di Guidobaldo.
Ai significati legati alla vita dei Montefeltro, si sommano quelli devozionali: il sonno di Gesù e la sua collana di corallo rosso sangue rimandano alla Passione; la conchiglia e l’uovo invece ricordano che Gesù rinascerà nel giorno di Resurrezione.
L’uovo, modello di perfezione geometrica, è il centro simbolico del dipinto. Sembra sospeso sopra la testa della Madonna ma, se si guarda con più attenzione, si nota che è molto più arretrato. Le figure si trovano infatti davanti e non all’interno del vano absidale. L’uovo è quindi lontano e di notevoli dimensioni: è un uovo di struzzo.
Secondo una credenza medievale, lo struzzo abbandona l’uovo nel deserto, dove è il sole a fecondarlo e covarlo; la sua presenza nel dipinto alluderebbe quindi alla Vergine divenuta madre grazie all’opera dello Spirito Santo.
La particolare capacità di Piero di costruire spazi tanto solenni quanto convincenti nasce dallo studio della matematica e della prospettiva. La passione per le scienze matematiche, insieme all’interesse per gli effetti della luce sulla materia, costituiscono il tratto distintivo del suo stile.
Nel dipinto la luce arriva da una fonte che vediamo riflessa sulla spalla dell’armatura di Federico, una finestra ad arco e, forse, un piccolo oculo. Rifacendosi all’arte fiamminga, conosciuta alla corte di Urbino, Piero descrive la lucentezza dei diademi degli angeli; rende la trasparenza della veste dell’angelo a sinistra della Vergine e della croce cristallina di san Francesco, che apre il saio a mostrare la ferita nel petto.
Le figure silenziose, dai gesti pacati, che abitano uno spazio immerso in un tempo sospeso, fanno di quest’opera non solo un capolavoro della cultura rinascimentale, ma un eterno mistero di bellezza nel quale addentrarsi lentamente.
04 - “Sposalizio della Vergine” di Raffaello Sanzio
Nella grande piazza davanti al tempio, Maria e Giuseppe si sposano alla presenza del sommo sacerdote che congiunge le loro mani. Accompagnata dalle ancelle, la Vergine riceve l’anello da Giuseppe, come descritto nei Vangeli Apocrifi e nella Legenda aurea, un testo medievale che raccoglie le vite dei santi. In queste fonti si narra che, ispirato da Dio, il sommo sacerdote di Gerusalemme chiese ai diversi pretendenti di Maria di presentarsi al tempio con un ramoscello secco. Fra di essi venne scelto Giuseppe, perché solo il suo ramoscello, una volta posato sull’altare del tempio, miracolosamente fiorì. Dietro di lui, infatti ci sono altri cinque pretendenti che tengono i loro rami privi di fiori: in primo piano uno di loro spezza la verga con il ginocchio, mentre un altro più discreto, poco dietro, la piega con apparente noncuranza.
Al centro della piazza, segnata dalla successione prospettica dei lastroni della pavimentazione, c’è un tempio a sedici lati con una doppia porta aperta. Lo sguardo può così oltrepassare l’armoniosa architettura, seguendo le linee di fuga della prospettiva che qui convergono.
Sopra l’arco centrale del tempio compare la firma: RAPHAEL URBINAS e la data in numeri romani, 1504.
Raffaello nacque a Urbino nel 1483. Intorno ai vent’anni gli fu commissionata quest’opera per la Cappella di San Giuseppe in San Francesco a Città di Castello. Probabilmente i committenti gli avevano chiesto di prendere a modello lo Sposalizio della Vergine dipinto, in quegli stessi anni, da Perugino per la cappella del Duomo di Perugia che custodiva la presunta reliquia dell’anello nuziale della Vergine.
Il confronto con l’opera di Perugino, oggi al Musée des Beaux-Arts di Caen, mostra come il giovane Raffaello fosse già in grado di modificare il corso dell’arte rinascimentale. Il tempio a pianta centrale, che in Perugino è sfondo incombente sui personaggi in primo piano, diventa in Raffaello il perno dal quale si origina uno spazio che si dilata, tendendo all’infinito. Raffaello raddoppia i lati del tempio di Perugino e fa girare tutt’intorno un portico sorretto da colonne ioniche. La curvatura della cupola è richiamata dalla disposizione delle figure in primo piano che non sono schierate, come in Perugino, lungo un’ipotetica linea orizzontale, ma ordinate secondo semicerchi, che si notano guardando i piedi dei personaggi più vicini, allineati lungo una curva regolare.
Raffaello mostra di essere un autentico maestro di ritmo e geometria e dipinge una composizione calibratissima, studiata in ogni dettaglio, ma comunicata con estrema grazia e naturalezza. Allo stesso modo, il maestro sceglie i colori secondo un gioco di rimandi e di contrasti, il cui perfetto bilanciamento accresce la fama di capolavoro che accompagna giustamente quest’opera.
05 - La “Cena in Emmaus” di Caravaggio
In un ambiente dominato dall’oscurità, una luce proviene da sinistra a illuminare la scena. Cristo sta benedicendo il pane appena spezzato. Ha lo sguardo rivolto verso il basso e il volto leggermente inclinato. L’uomo di profilo protende il collo e aggrotta la fronte, scattando in avanti per vedere meglio ciò che accade, come se non credesse ai suoi occhi, mentre l’altro, di spalle, racconta il suo stupore con le mani sollevate e aperte. L’oste, che guarda perplesso, e la serva restano invece estranei all’avvenimento perché non riconoscono il gesto di Gesù. Sulla tavola pochi elementi: due pani, un piatto di ceramica con erbe, un piatto di peltro e una caraffa. Poco dietro, un bicchiere con del vino rosso.
Il momento rappresentato conclude l’episodio descritto nel Vangelo di Luca, in cui due discepoli percorrono parte del cammino che va da Gerusalemme verso Emmaus con un viandante, al quale confidano la loro tristezza per la morte di Gesù. Scesa la sera, i discepoli invitano l’uomo a fermarsi in una locanda a mangiare con loro. Solo quando lo vedono benedire e spezzare il pane, ripetendo i gesti dell’Ultima cena, comprendono che è Cristo risorto. Un istante dopo egli scompare dalla loro vista.
Caravaggio mette in scena l’attimo dell’inaspettata rivelazione. Cristo è raffigurato con il viso immerso per metà nell’ombra, nella quale subito dopo si dileguerà.
Caravaggio dipinse la tela in un momento cruciale della sua vita. Nel maggio del 1606 uccise un uomo a Roma. In attesa di conoscere la sua sorte, si nascose fuori città, tra Paliano, Zagarolo e Palestrina, forse protetto dalla potente famiglia Colonna. Ma non smise di dipingere. Realizzò da latitante questa tela. È la seconda versione di un tema che aveva già affrontato, qualche anno prima, in un altro dipinto oggi conservato alla National Gallery di Londra.
Condannato alla pena capitale, Caravaggio fu poi costretto a lasciare lo Stato Pontificio, dando così inizio all’ultima travagliata fase della sua vita.
La bravura con la quale Caravaggio dosa luci e ombre conferisce alla versione di Brera, tutta giocata su toni terrosi, un’intimità e un lirismo sconosciuti alla più sgargiante versione di Londra. L’opera rappresenta infatti una svolta nello stile di Caravaggio, caratterizzata da una maggiore attenzione alla carica espressiva e drammatica della scena, tutta incentrata sui personaggi e i pochissimi oggetti circondati dal buio. La luce racconta che una rivelazione accade. L’ombra si posa su corpi e cose, rappresentate nella loro verità; sottolinea gesti ed espressioni; attraversa il viso di un Cristo velato di malinconia; entra nel solco del pane spezzato irregolarmente, secondo quella naturalezza che Caravaggio si portò dietro dalla formazione in terra di Lombardia.
Il dipinto, entrato in Pinacoteca nel 1939, grazie al contributo dell’Associazione degli Amici di Brera, è una delle sole due opere di Caravaggio presenti sul territorio milanese; l’altra è la famosa Canestra di frutta conservata alla Pinacoteca Ambrosiana.
05T - Da Caravaggio a Hayez
Le sale successive, fino alla 33, presentano esempi di pittura seicentesca, mentre la sala 34, dedicata al Settecento, ospita, tra gli altri, i primi dipinti entrati a far parte della collezione di Brera.
Stai attraversando ora il corridoio tra le sale 35 e 36 che offrono uno sguardo sulla pittura del Settecento veneto e lombardo, tra Canaletto, Guardi, Fra Galgario e Pitocchetto. La sala 37 è invece dedicata alla pittura dell’Ottocento, come la sala 38.
06 - “Il bacio” di Francesco Hayez
Due giovani, stretti in un abbraccio, si baciano con passione. Lei appoggia la mano sulla spalla di lui che le sorregge la testa, per tirarla a sé. I loro visi sono quasi del tutto nascosti, mentre le labbra si toccano. Sembra essere un bacio di addio, visto che il ragazzo, pronto ad andar via, ha già un piede sullo scalino.
Una minaccia pare incombere su di loro: inquieta l’ombra di una persona sul muro oltre l’apertura a sinistra. Si trovano forse nell’androne di un castello; in alto a destra si intravvede la parte inferiore di una monofora buia.
La teatralità della posa dei protagonisti è resa con studiata naturalezza. Attrae la veste in raso di seta azzurra della ragazza, la cui lucentezza ricorda la migliore tradizione pittorica veneta, di cui Hayez, nato a Venezia, si riteneva ultimo rappresentante, e colpisce il caratteristico cappello del ragazzo, un copricapo indossato dai patrioti italiani che riconduce al significato risorgimentale del dipinto.
La straordinarietà dell’opera è data dall’originale interpretazione che Hayez dà di un fatto quotidiano come un bacio tra innamorati. L’ambientazione è medievale, come indicano gli abiti e il titolo originario (Il bacio. Episodio della giovinezza. Costumi del XIV secolo), ma l’ardore del gesto è del tutto moderno. Non siamo di fronte al semplice trionfo di una passione giovanile; il dipinto è infatti immagine simbolo di coloro che devono combattere per la nascente nazione, fragile come questo amore appena sbocciato, assediato da ombre fuori campo. L’artista crea un autentico manifesto delle lotte risorgimentali per l’indipendenza, conquistata anche a prezzo del sacrificio degli affetti più cari, per il bene della patria.
Commissionato dal conte Alfonso Maria Visconti, che in seguito lo donò alla Pinacoteca, Il bacio fu presentato nel 1859 all’Esposizione dell’Accademia di Belle Arti di Brera, tre mesi dopo l’ingresso trionfale a Milano di Vittorio Emanuele II e Napoleone III. Era appena terminata vittoriosamente la Seconda Guerra d’Indipendenza e Milano e la Lombardia erano state liberate dal dominio austriaco.
Francesco Hayez aveva allora quasi settant’anni ed era tra i più celebrati maestri del tempo, massimo esponente del Romanticismo storico in pittura.
Grazie al successo che da subito accompagnò il dipinto, si moltiplicarono le stampe che lo riproducevano, come mostra l’opera di Gerolamo Induno Triste presentimento, esposto in questa sala accanto al Bacio. Siamo nel 1862. In una stanza dimessa una ragazza guarda una miniatura del fidanzato. Egli è partito come volontario e lei sembra sentire che non tornerà più. Accanto ad altri simboli risorgimentali, nella stanza è appesa una riproduzione dell’ormai famoso Bacio.
Nel Novecento il dipinto di Hayez ha mantenuto inalterata la sua popolarità, anche se spogliato dei suoi significati storici: è stato citato nel film Senso di Luchino Visconti; ha ispirato l’immagine degli innamorati “al bacio” presente sulle scatole di una nota marca di cioccolatini; ed è stato protagonista di reinterpretazioni di street artists e parodie di vignettisti.
Da celebrata icona risorgimentale a straordinaria icona pop: una tangibile prova dell’inesauribile vitalità di questo capolavoro.
5 Capolavori per te è un’audioguida consultabile gratuitamente sul sito web e sulla app del museo, che ti accompagna lungo il percorso della Pinacoteca e ti invita a fermarti per qualche minuto sui maggiori capolavori della collezione.









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