30 minuti con Carlo Crivelli















































01 - Sala XXII
Sei nella sala XXII, una vera e propria “grotta dorata” che contiene i capolavori provenienti dalle Marche; sono quasi tutti polittici, grandi macchine complesse costituite da vari elementi, che decoravano gli altari delle chiese e molto diffusi in Italia tra il XIII e il XV secolo. Erano formati da più registri di immagini tenute insieme da cornici riccamente ornate di cimase, guglie, colonnine, elementi in rilievo. Durante la dominazione napoleonica all’inizio del 1800, essi furono trafugati dalle chiese in cui alloggiavano, le varie parti che li componevano smontate e vendute separatamente a collezionisti e antiquari; una parte delle opere qui esposte non ha più neppure la sua cornice e quelle che vedi sono state rifatte alla metà dell’Ottocento da artigiani che ricreavano manufatti “in stile” per poter riassemblare le varie parti delle opere, che assumevano così un aspetto simile a quello originale. L’oro è l’indiscusso protagonista di questa sala: colora le cornici, gli sfondi dei dipinti, ed è arricchito di fitte decorazioni a punzone che disegnano complicati motivi ornamentali dietro le figure.
La parete che ti trovi di fronte, entrando dalla sala XXI, è dedicata a Carlo Crivelli: a destra la Madonna della Candeletta e a sinistra il Trittico di Camerino.
02 - Lettura dell'opera
Gli scomparti del polittico vedono raffigurata al centro la Vergine seduta su un trono sfarzosamente addobbato con un pregiato drappo rosso, lo stesso sfarzo presente nel mantello verde e oro in cui è avvolta, le cui pieghe scendono morbidamente fino ai piedi. Il Bambino è seduto sul ginocchio sinistro, lo copre una semplice vestina bianca, e stringe tra le mani un uccellino (forse un cardellino, simbolo della Passione); ha il viso teneramente imbronciato e pensieroso. Le mani affusolate di Maria lo sorreggono in un gesto di premura e tenerezza in cui mantiene la compostezza di una regina.
Ai lati, quattro figure abitano lo spazio definito dal pittore: a sinistra San Pietro , cupo e severo e al suo fianco un San Domenico acceso di mistica contemplazione, la stessa che caratterizza l’espressione di San Pietro martire sulla destra. Vicino a lui il giovane San Venanzio, patrono di Camerino, offre alla Vergine un modellino della città: impeccabilmente vestito, calzamaglie e berretto rosso acceso, osserva immoto Maria.
L’oro è l’altro protagonista del trittico: lo vediamo brillare, sfolgorante e materico, nella tiara di San Pietro, nel bottone del mantello, nella croce che sormonta il pastorale, nella chiave del Regno dei Cieli che irrompe con la sua tridimensionalità nel nostro universo di spettatori. E soprattutto nello sfondo su cui si stagliano le figure: un tappeto d’oro decorato con raffinate punzonature, che conferisce all’opera un aspetto arcaico, medievale.
A guardar meglio, tuttavia, nessuno dei protagonisti sembra essere sopraffatto da quell’oro, perché il pittore definisce con rigorosa precisione prospettica lo spazio che ciascuno occupa, e col tratto implacabilmente preciso del disegno le situa in uno spazio che si rivela, ad un’attenta osservazione, di incredibile efficacia. Le figure sono in piedi su un basamento marmoreo che attraversa tutto il trittico e conferisce al dipinto unità prospettica e compositiva; la sua decorazione comprende rilievi marmorei intervallati da elementi vegetali, tra cui un cetriolo, che torna spesso nelle opere di Crivelli. Si crede che esso simboleggi la Resurrezione perché la tradizione narra che Giona, uscito vivo dopo tre giorni dal ventre della balena, sia approdato vicino ad una pianta di cetrioli; secondo altri, l’ortaggio alluderebbe al peccato originale e per contrapposizione alla purezza di Maria Vergine.
Un altro importante elemento presente nell’opera è la varietà di tessuti preziosi che vi sono raffigurati, con una qualità e un’efficacia che ancora oggi stupiscono gli osservatori: il drappo d’onore rosso alle spalle della Vergine – un damasco – che la isola al centro della composizione; il regale mantello a motivi verde e oro; i tessuti variopinti indossati dal giovane Venanzio e il berretto in velluto rosso, sapientemente reso grazie all’uso di lacche stese a velatura. Tutto ci racconta di una minuziosa attenzione del pittore verso la quantità di tessuti preziosi che una vera e propria “industria del lusso” produceva e aveva portato a livelli di qualità straordinari; attenzione dunque non al passato, ma alla storia e alla società contemporanee in cui la creazione di tessuti pregiati era destinata non solo ad abbellire le dame di corte e i palazzi dei principi, ma anche chiese e immagini di culto.
Sotto gli scomparti laterali fanno mostra di sé le due predelle superstiti, arrivate a Milano nella stessa cassa ma attribuite al polittico solo all’inizio del XX secolo: raffigurano i santi Antonio Abate, Girolamo e Andrea sulla sinistra; Giacomo, Bernardino da Siena e il beato Ugolino Magalotti da Fiegni sulla destra, tutti con gli attributi che li caratterizzano. Queste parti sono oggi considerate opera autografa di Crivelli, che dipinse su foglia d’oro figure sciolte e vivide, soprattutto per l’espressività dei volti e la realistica resa pittorica delle mani.
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03 - Iconografia
I quattro santi nel trittico di Camerino presentano l’iconografia e gli attributi tradizionali che ne permettono l’identificazione: San Pietro indossa la tiara e il sontuoso mantello o piviale, un’ampia veste liturgica di forma semicircolare, aperta davanti e chiusa sul petto da un prezioso fermaglio. Tiene nella mano sinistra il pastorale sormontato da una croce e nella destra il libro e le chiavi del Regno dei Cieli, una dorata e una argentata: esse sono l’attributo più comune nelle raffigurazioni medievali e moderne del santo, e fanno riferimento a più significati. Il primo è il potere di aprire o chiudere le porte del Regno di Dio e, tramite la Chiesa, lasciarvi entrare solo coloro che ne sono degni; il secondo si riferisce alle parole “legare” e “sciogliere” pronunciate da Gesù nel vangelo di Matteo, con le quali Egli assegna a Pietro il potere di condannare o assolvere, quindi di ammettere o escludere i fedeli dal Paradiso. Le due chiavi divennero, in età medievale, insegna dell’autorità papale nella sua duplice natura divina e terrena.
San Domenico in secondo piano indossa l’abito tradizionale dell’Ordine dei Predicatori e tiene in mano il libro, suo tradizionale attributo, con cui si fa riferimento all’attenzione che l’Ordine riservava allo studio della dottrina in funzione antiereticale. Nel libro sono racchiusi due gigli, che evocano l’ideale della castità e aiutano a distinguerlo da San Tommaso d’Aquino, solitamente raffigurato anche lui con un libro in mano.
Sulla destra un altro domenicano, San Pietro Martire, rappresentato con la roncola che gli trafigge il capo e un pugnale nel petto; entrambi richiamano il modo in cui fu martirizzato da alcuni sicari nel 1252 a Barlassina, mentre si recava con alcuni compagni da Como a Milano a combattere gli eretici. Vicino a lui il giovane Venanzio, sontuosamente abbigliato e con l’acconciatura dell’epoca, come d’uso offre alla Vergine il modellino della città di cui è protettore, in questo caso Camerino. Il santo era un giovane di quindici anni appartenuto ad una nobile famiglia della classe senatoria della città; convertitosi al cristianesimo, subì una durissima persecuzione da parte delle autorità romane, fu torturato finché nel 253 venne decapitato assieme ad altri dieci cristiani. Il suo corpo riposa a tutt’oggi nella basilica a lui dedicata, appena fuori dalle mura di Camerino.
Al centro la Vergine seduta in trono, che sorregge il Bambino con un gesto regale ma affettuoso, si ispira alle Maestà così comuni nella pittura italiana del Duecento e del Trecento, secoli durante i quali la funzione delle immagini sacre mutò radicalmente, proprio grazie all’avvento degli ordini mendicanti. Si preferirono figurazioni nuove, meno legate all’erudito linguaggio dei teologi, ma più vicine a destinatari laici in numero sempre crescente. Si andò verso una generale umanizzazione dei personaggi sacri, con la quale si volevano avvicinare i fedeli alla comprensione della centralità dell’incarnazione di Cristo nel progetto salvifico di Dio, tramite il loro coinvolgimento emotivo.
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04 - Tecnica
Le sfavillanti tavole di Crivelli, così sapientemente armonizzate e rese vive dalla perizia del pittore, ad un’attenta analisi rivelano la presenza di un disegno preparatorio fondamentale nell’organizzazione delle composizioni. Anche se non è ancora possibile capire quale fosse il metodo di lavoro di Crivelli e della sua bottega, e soprattutto da cosa fosse preceduto il disegno preparatorio, grazie ad accurate analisi riflettografiche si è scoperto che il pittore affidava al disegno sia il compito di organizzare la composizione, sia quello di definire la volumetria dei corpi. Un tratteggio sottile, fatto di linee diagonali parallele che Crivelli apprese durante le sue esperienze giovanili padovane nella bottega di Francesco Squarcione. A questa tecnica di vero e proprio “disegno pittorico” si affianca quella più classica di un disegno tratteggiato a pennello, di cui nel nostro dipinto abbiamo un esempio nel fregio ai piedi della Vergine. Non rimangono tracce di spolvero, che suggerirebbero l’uso di cartoni preparatori da cui trasferire elementi soprattutto decorativi che tendono a ripetersi: anche per quanto riguarda disegni complessi come quelli dell’architettura del trono le indagini dimostrano che essa non deriva da un preciso progetto grafico, bensì dai ripetuti tentativi dell’artista di trovare un assetto plausibile della composizione. Il risultato finale è un impianto prospettico in cui le proiezioni degli elementi convergono verso l’asse verticale di simmetria del dipinto, che non ha quindi un unico punto di fuga.
Altri elementi che catturano inevitabilmente lo sguardo dello spettatore sono gli inserti in rilievo, sorprendenti in un manufatto pittorico la cui caratteristica principale è la bidimensionalità: tutti gli attributi di san Pietro (le chiavi, la spilla e gli elementi del pastorale) nascondono un’anima in legno unita al supporto mediante un chiodo infisso al centro di ogni elemento. Su di essa è stata poi stesa la consueta preparazione a gesso e colla bianca, tracciato il disegno preparatorio e le incisioni che permettevano di non perdere le tracce del disegno una volta steso il bolo rosso e la foglia d’oro o d’argento. Un’altra tecnica per ottenere elementi plastici, in questo caso la cintura di San Venanzio e le aureole dei santi, è quella detta “a pastiglia”: si tratta di un impasto di gesso macinato con colla e bolo di argilla steso a pennello sulla tavola a delineare le parti in rilievo. Laddove il pittore ha utilizzato una maggiore quantità di gesso nell’impasto, come nel pugnale e nella spada di san Pietro Martire, ha ottenuto un materiale più denso e plasmabile, adatto per forme di media grandezza, semplici e poco aggettanti. Crivelli si serviva dunque di tutte le tecniche pittoriche e decorative maggiormente in uso nelle botteghe italiane dal XIII secolo, funzionali ad impreziosire materialmente le complesse macchine d’altare che egli creava per le chiese dell’entroterra marchigiano.
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05 - La Vita di Carlo Crivelli
Carlo Crivelli nacque a Venezia nella prima metà del XV secolo e si formò probabilmente nella bottega di suo padre Jacopo. Non restano molte testimonianze della prima parte della sua vita fino al 1457 quando si apprende, dall’unico documento conosciuto, che fu condannato a sei mesi di carcere per aver convissuto in stato di adulterio con una donna. Non ci aiutano a ricostruirla, purtroppo, neanche le sue opere, poiché la prima datata è il polittico di Massa Fermana del 1468. Proprio dalle opere, tuttavia, si può desumere che la sua formazione abbia avuto un’origine veneziana nell’ambiente vicino a pittori come Jacopo Bellini, Antonio da Negroponte, Antonio Vivarini. A questa si aggiunge un alunnato a Padova presso la bottega di Francesco Squarcione negli anni ’50 del 1400, appena precedente il successivo soggiorno a Zara negli anni compresi tra il 1463 e il 1467 circa. Del soggiorno padovano restano tracce significative nei suoi dipinti: nell’importanza centrale del motivo a festone e soprattutto nell’uso insistito del tratteggio per delineare i volumi.
Non si sa quale sia stato il motivo che spinse Crivelli a stabilirsi in terra marchigiana per lavorare nelle zone comprese fra Ascoli Piceno, Macerata e : si sa solo che vi rimase probabilmente fino a quello che si può considerare il termine della sua produzione artistica, il 1493. La data compare nell’Incoronazione della Vergine di Fabriano, sua ultima opera conosciuta: nelle Marche egli trovò un pubblico che apprezzò il multiforme linguaggio delle sue opere, la strabiliante e nello stesso tempo tradizionale preziosità dei suoi manufatti, il suo modo di raffigurare un mondo sacro vivo e pulsante in un’atmosfera quanto mai rarefatta e a tratti irreale.
06 - Committenti
I suoi committenti appartenevano al ceto mercantile e notarile delle città in cui operò e agli ordini religiosi mendicanti. Romano di Cola, che gli commissionò il polittico, era probabilmente un mercante che abitava proprio nelle vicinanze della chiesa di San Domenico a Camerino. Dalle testimonianze rimaste si può ricostruire il suo rapporto continuativo con la chiesa mendicante, nella quale possedeva una sua cappella; sappiamo inoltre che era rappresentante della Confraternita della Vergine Maria, legata all’Ordine domenicano perché promuoveva la devozione al santo Rosario. Di lui si sa che fu generoso benefattore del convento, a cui chiese in cambio che fosse celebrata una messa quotidiana, per sé e per la sua famiglia, proprio davanti al trittico sull’altare maggiore.
Fu in questa borghesia mercantile dei centri dell’entroterra marchigiano che Crivelli trovò i suoi principali committenti, spesso legati da stretti rapporti sia con gli ordini religiosi, sia con famiglie aristocratiche locali come i da Varano, signori di Camerino. Le sue opere soddisfacevano la predilezione di questa classe per i manufatti preziosi, complessi e sontuosi, ricchi di particolari stupefacenti che rimandavano ad un linguaggio figurativo ancora legato a stilemi tardo gotici.
07 - Storia del dipinto
Il trittico, composto originariamente di otto tavole e collocato nell’altare maggiore della chiesa di San Domenico a Camerino, arrivò a Brera il 24 settembre 1811 assieme ad altre opere del pittore, come conseguenza della requisizione di opere di chiese e conventi nella zona delle attuali Marche. Nelle casse erano contenute altre opere: la Madonna della Candeletta, la Crocefissione, la Consegna delle chiavi a San Pietro e l’Annunciazione con Sant’Emidio da Ascoli Piceno. Fu Antonio Boccolari, uno dei commissari napoleonici incaricati della requisizione di opere d’arte, a scegliere quelle che riteneva di maggior interesse, da portare a Milano per allestire una collezione che avesse uno scopo “didattico” e rappresentasse la varietà delle scuole pittoriche italiane. È interessante immaginare Boccolari aggirarsi per la chiesa di San Domenico a Camerino e soffermarsi davanti ai pannelli del polittico che ornava l’altare maggiore; in un locale annesso, vide poi la Madonna della Candeletta, di proprietà della Cattedrale, e convinse il Capitolo a cederla al governo. Fece infine imballare tutti i capolavori in una cassa e li spedì a Milano; per i dipinti di Crivelli questo non è che il primo di tanti spostamenti, una vera e propria “diaspora” di quella che doveva essere la strepitosa acquisizione voluta da Boccolari per Brera. Le tre cuspidi del trittico furono al centro di uno di questi scambi: raffiguranti un Cristo risorto, un Angelo annunciante e una Vergine annunciata ai lati, vennero cedute al pittore e antiquario Filippo Benucci. Questi iniziò una lunga trattativa con i conservatori del museo, proponendo lo scambio delle cuspidi con dipinti di scuola olandese di piccolo formato, ancora oggi esposti nelle salette dedicate all’arte dei Paesi Bassi. Le tre cuspidi furono immesse sul mercato antiquario e vendute alla metà del XIX secolo; oggi sono divise tra Francoforte e Berna.
Fortunatamente, le tre tavole principali rimasero a Brera, ma nonostante ciò, la loro permanenza in museo non fu affatto tranquilla! Nel 1824 esse furono oggetto di pesanti restauri che alterarono la leggibilità complessiva dell’opera: una concezione del restauro fortemente interpretativa, che snaturarò l’aspetto del polittico. La sua forma originaria era quella di una complessa macchina decorativa, di forme piuttosto strette e allungate, con gli spazi completamente riempiti dalle figure e inserita in una cornice lignea articolata, di forme tardogotiche; questa fu smontata nel 1824 e vennero eseguite alcune variazioni sull’opera. Le porzioni a vista delle tavole, quelle su cui era inchiodata, vennero punzonate e dorate come i fondi originali, così da creare scomparti centinati a tutto sesto; la doratura fu estesa a tutta la superficie pittorica e si ampliarono alcune parti figurative. Una nuova cornice a cassa, dorata e con colonnine tortili, sostituì quella originale rendendo il polittico un’opera più armonizzata con le opere del Quattrocento veneto con cui condivideva lo spazio museale; perse così le sue caratteristiche peculiari: lo spazio ristretto e saturo di cose e persone, le variegate indicazioni prospettiche. La magia della pittura di Crivelli e la sua forte personalità d’artista vennero “normalizzate” all’interno di una visione critica che avvicinava il pittore ai suoi coetanei come Carpaccio, Mantegna, Bellini. Durante la prima metà del XX secolo la fortuna critica dell’artista sembra affievolirsi: le sue opere restano parte importante dell’allestimento di Brera, ma ancora contigue alla scuola veneta e veneziana di cui era ritenuto un esponente; pochi studiosi mostravano interesse verso quella pittura così colorata, sontuosa e arcaizzante. Nel 1950 venne smontata la cornice ottocentesca per inserire il trittico in un anonimo passe-partout museale. Solo verso il 1990 le sue opere trovarono la giusta collocazione all’interno della sala dedicata ai polittici marchigiani, nella quale a tutt’oggi il trittico di San Domenico è presente con gli scomparti dell’ordine principale e la predella. Le tre tavole maggiori, dopo il restauro del 2007, sono prive di cornice: eliminato il passe-partout moderno, l’opera assume un aspetto meno lontano da quello originario, che pure è difficile restituire completamente per la scomparsa dell’elaborata cornice. La scelta di esporre anche le due tavole della predella permette di avere una visione il più fedele possibile di quello che doveva essere l’aspetto dell’opera. La pinacoteca di Brera vuole in questo modo mostrarti quale fosse la ricchezza e la complessità del polittico di Carlo Crivelli.
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In ogni guida verrà presentata in maniera approfondita un’unica opera. Questa guida è dedicata al Trittico di San Domenico di Carlo Crivelli.















































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