Sotto una buona stella | Pinacoteca di Brera
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I servizi educativi

I servizi educativi della Pinacoteca di Brera lavorano per valorizzare il proprio museo in quanto ambiente educativo dotato di proprie specifiche caratteristiche e per renderlo accessibile al più ampio numero possibile di persone.

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Sofia Incarbone
sofia.incarbone@cultura.gov.it

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Sotto una buona stella

Sotto una buona stella
Offerta per: GIOVANI E ADULTI - DA FARE A CASA

“Le costellazioni delle Orse, girando su sé stesse, non tramontano mai, eppure spesso le nuvole le nascondono. Ma questa stella rimane per sempre; questa stella mai tramonta, né una nube passeggera oscura il suo volto. (…) E di fronte al suo splendore, tutti gli altri segni della sfera sono svaniti e nemmeno il bel Lucifero ha osato mostrare il suo aspetto”.
Prudenzio, Inno per l’Epifania
Adorazione dei magi Carracci
Adorazione dei Magi, Ludovico Carracci, olio su tela, 1616, Pinacoteca di Brera, sala XXVIII, dettaglio

Quando ci immaginiamo la scena dell’Epifania, avvenuta tradizionalmente il 6 gennaio, non può mancare la stella cometa che indica ai tre Re Magi la strada per Betlemme, posandosi proprio sulla capanna o grotta in cui è nato Gesù Bambino.

Ma non è sempre stato così.

La presenza di una stella è attestata fin dall’Antico Testamento, in uno dei libri del Pentateuco, più precisamente nei Numeri, che accolgono la cosiddetta profezia dell’indovino Balaam:

“Un astro sorgerà da Giacobbe” (Nm, 24,17).

Questo riferimento a un astro, a una stella, è ripreso in più luoghi nel Vangelo di Matteo, forse anche per riallacciarsi direttamente alla profezia. I cosiddetti Vangeli dell’Infanzia, scritti da Luca e Matteo, sono gli unici dei quattro a raccontarci la Natività ma sono scarsissimi di particolari narrativi ed ecco allora che tutti gli artisti si rivolgono altrove. I pittori si ispirano ai Vangeli apocrifi, quelli eterodossi, mai entrati nel canone ufficiale accettato e divulgato dalla Chiesa, ma di fatto, grazie proprio alle raffigurazioni artistiche, diffusi al punto tale da formare una vera e propria consuetudine.
Tanto che noi oggi non ce ne chiediamo più l’origine.
Per esempio, la stella cometa!

 

La cometa
di Halley
cometa di Halley nel 1911
Foto del passaggio della cometa di Halley nel 1911

Sapevate che il primo a rappresentare la stella come una cometa fu nientemeno che Giotto?
Negli affreschi della Cappella degli Scrovegni a Padova, del 1304 circa, il capostipite di tutta la pittura occidentale così come noi la intendiamo, ossia come mimesi del dato naturale, raffigurò la cometa di Halley, che il grande artista aveva potuto osservare di persona nei cieli quel 25 ottobre 1301, quando appunto la cometa era passata.
Sappiate che questa cometa passa e ripassa: forse qualcuno di voi se ne ricorda nel 1986. Se ve la siete persa niente panico! La rivedrete nel 2061! La cometa deve il suo nome a Edmond Halley che per primo la studiò e ne misurò l’orbita nel XVII secolo, calcolandone il ritorno ogni 76 o 77 anni.

 

Giotto, Cappella degli Scrovegni
Giotto, Cappella degli Scrovegni, 1303-05, Padova, affreschi, dettaglio

Nell’apprestarsi a dipingere la stella come una cometa, Giotto tenne sicuramente conto della credenza popolare a riguardo, diffusissima nei drammi liturgici medievali: si tratta di una sorta di teatro edificante che proviene dalla messa e viene allestito per le feste solenni, come la Pasqua e il Natale. I testi, inizialmente molto brevi e in prosa, divengono presto in versi e in lingua volgare. I primi esempi conosciuti risalgono al X secolo.
Nella sua duecentesca Legenda aurea, Iacopo da Varagine tenta un po’ goffamente di descrivere la cometa, affermando che la stella dei Magi non si presenta come le altre, ma è fornita di lunghissimi raggi che roteano per l’aria. Il fatto è che lui non ne ha mai viste di persona!

Ma facciamo un passo indietro.

 

I Magi

La stella è legata all’episodio dell’Adorazione dei Magi. Il termine deriva dal greco magos, che origina dal persiano; il nome designa una casta sacerdotale ereditaria del popolo Medo, officianti il culto mazdaico. Diffusosi dal VI sec. a.C., era una corrente dell’antica religione persiana detta zoroastrismo, dovuto agli insegnamenti del profeta Zoroastro. Interessante notare che, secondo un’etimologia popolare, questo nome significa “stella viva”.
Ed è studiando appunto gli astri che i tre Magi giungono a Gerusalemme, affermando di aver visto sorgere la stella divina e di essere venuti per adorare il Bambino. Dopo aver chiesto informazioni a re Erode, i tre sapienti partono seguendo l’astro luminoso.

“Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia” (Mt, 2, 10).

Un capolavoro del Rinascimento veneto, I tre filosofi di Giorgione, raffigura secondo alcune autorevoli letture iconologiche i tre Re Magi, tradizionalmente ribattezzati Melchiorre, Baldassarre e Gaspare, in atto di studiare e scrutare i cieli, aiutandosi con strumenti matematici e fogli con appunti, nell’attesa di veder sorgere la stella del Messia, la cui venuta è preannunciata anche dallo zoroastrismo.

I tre filosofi Giorgione
I tre filosofi, Giorgione, olio su tela, 1506-08, Kunsthistorisches Museum Wien

La stella di Betlemme, dal III secolo in poi, può assumere altre forme: un fiore, un rosone o un cerchio luminoso… può essere persino sostituita dalla testa di un cherubino o da un angelo in volo; anzi, a volte, è il Bambino stesso a guidare i Magi.
Forse non tutti sanno che anche Milano ha la sua stella dei Magi che svetta, corredata di otto punte, ma non di una coda, al posto della più tradizionale croce, sul campanile della chiesa di Sant’Eustorgio, che conserva appunto le reliquie dei tre re.

 

A sinistra, Adorazione dei Magi, Pittore fiorentino, Affresco Santa Maria Novella, dettaglio volto di Gesù Bambino al posto della stella; a destra, Stella a 8 punte posta sul campanile della Basilica di Sant’Eustorgio, in Milano, dove si trova il Sepulcrum Trium Magorum (tomba dei tre Magi).
A sinistra, Adorazione dei Magi, Pittore fiorentino, Affresco Santa Maria Novella, dettaglio volto di Gesù Bambino al posto della stella;
a destra, Stella a 8 punte posta sul campanile della Basilica di Sant’Eustorgio, in Milano, dove si trova il Sepulcrum Trium Magorum (tomba dei tre Magi)

Dal 1336, sotto la signoria viscontea, nel giorno dell’Epifania, è testimoniata la processione della Stella, un variopinto ed esotico corteo comprendente animali vari, che attraversa l’intera città seguendo una stella issata in cima a un’asta. Dal 1962 la tradizione è ripresa.

In realtà, sappiamo che nessuna cometa ha solcato i cieli del vicino Oriente durante gli anni della nascita storica di Gesù. Altri fenomeni astrali potrebbero essersi verificati, apparendo agli osservatori di allora, per grandezza e luminosità del tutto eccezionale, come comete. Per esempio, una congiunzione di Saturno con Giove nella costellazione dei Pesci si verifica tre volte nel 7 a.C.: in maggio, settembre e dicembre.

 

Le stelle
della Pinacoteca di Brera

Nella prima Adorazione dei Magi che incontriamo all’interno della Pinacoteca di Brera, quella di Stefano da Verona, in sala IV, la stella splende nel cielo, in asse diretto con la testa di Gesù Bambino e con la sua aureola [–> VAI ALLA SCHEDA OPERA].

 

Adorazione dei Magi Stefano da Verona
Adorazione dei Magi, Stefano da Verona, tempera su tavola, 1435 (?), Pinacoteca di Brera, sala IV, a sinistra un dettaglio

Il Bambino è presentato nell’atto di accogliere il dono di un meraviglioso reliquiario, tutto pinnacoli, che testimonia la grande oreficeria tardogotica. I particolari dorati (aureole, corone, reliquiario, stella) sono realizzati con vera foglia d’oro zecchino o a pastiglia, ovvero lavorati in 3D su una base di gesso: siamo nell’autunno del Medioevo, quel gotico cortese, raffinato ed elegante, che pervade di sé tutta l’Europa ed è il vero stile dominante, la vera lingua comune ancora nel 1434, anno in cui la deliziosa tempera su tavola viene dipinta meticolosamente in ogni minimo dettaglio, compresi gli splendidi animali del variopinto corteo dei Magi. La stella viene rappresentata come un alone di luce dorata dagli innumerevoli raggi.

Nella predella, firmata e datata da Lorenzo Costa nel 1499, in sala XX [–> VAI ALLA SCHEDA OPERA], l’occhio dello spettatore si perde nei singoli episodi narrativi, descritti con minuzia lenticolare fiamminga, abbagliato dal gusto per i panneggi decorativi e dal vivace cromatismo. L’opera era stata infatti commissionata quale predella di una pala di Francesco Francia da Antonio Galeazzo Bentivoglio, figlio del signore di Bologna, al ritorno da un viaggio in Terrasanta.

 

Adorazione dei Magi Lorenzo Costa il Vecchio
Adorazione dei Magi, Lorenzo Costa il Vecchio, olio su tavola, 1499, Pinacoteca di Brera, sala XX, in alto dettaglio

Ecco allora che nel variopinto corteo compaiono i ritratti dei membri della famiglia, mentre l’evento sacro è relegato in un angolo a sinistra. Solo un giovane pastore, affacciandosi da uno steccato, osserva in cielo la comparsa della stella a otto punte da cui si dipartono numerosi raggi più sottili a enfatizzarne lo splendore.

Nella scenografica Adorazione dei Magi di Jacopo Negretti, detto Palma il Vecchio, in sala XIV [–> VAI ALLA SCHEDA OPERA], compare anche sant’Elena, titolare della chiesa veneziana da dove proviene la pala. L’imperatrice, madre di Costantino, è intenta a sostenere la croce avendone cercato e trovato le reliquie. Nelle sue fattezze, anzi, è forse nascosto il ritratto di Orsa Malipiero, committente dell’opera. Nella centina, al culmine superiore della tavola, si addensano le nubi, presaghe del destino di Passione di Gesù, mentre due angioletti, lo sguardo rivolto verso la scena sacra in basso, sembrano incorniciare con le loro braccine aperte l’astro che, seguendo il racconto evangelico, si posa sulla capanna. Anche in questo caso la stella è rappresentata a otto punte, di color giallo chiaro, circondato da un bagliore aranciato e dotato di un raggio prolungato che scende a lambire la capanna. Insomma, in un certo senso, ha una coda ma non è una cometa.

 

Adorazione dei Magi in presenza di sant’Elena
Adorazione dei Magi in presenza di sant’Elena, Palma il Vecchio (Jacopo Negretti), olio su tela, 1525-26, Pinacoteca di Brera, sala XIV, a sinistra dettaglio

Anche perché una stella non è una cometa!
Una cometa è un corpo celeste relativamente piccolo, prevalentemente composto di ghiaccio, roccia e metalli, circondato da una nube gassosa, detta chioma. La cometa presenta la caratteristica coda solo quando si trova vicino al Sole, perché il ghiaccio e i gas congelati si sublimano col calore della stella solare, passando direttamente dallo stato solido a quello gassoso.
Una stella è invece un corpo celeste che brilla di luce propria: la stella più vicina a noi è il Sole.
La storia dell’osservazione stellare data all’origine dell’uomo: basti pensare che la maggioranza dei nomi delle costellazioni sono sumere e risalgono al II millennio a.C.
Stupisce che Giotto abbia raffigurato proprio una cometa, perché in passato le comete erano considerate portatrici di sventure e iatture numerosissime, dalla peste all’infertilità dei campi, dalle guerre alle catastrofi vere e proprie come terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche, dalle carestie alle epidemie fino al presagio della morte di personaggi illustri. Forse il pittore allude alla morte in croce di Gesù.

Moneta di età augustea con la raffigurazione di una stella a otto punte
Moneta di età augustea con la raffigurazione di una stella a otto punte

Non a caso Plutarco testimonia che, nell’estate del 44 a. C., circa due mesi dopo le idi di marzo, ovvero quando era avvenuto l’assassinio di Giulio Cesare, era comparso in cielo il sidus Iulium (stella di Giulio), la famosa cometa rosso sangue. Citata tra gli altri da Virgilio e Ovidio, fu interpretata come segno della divinità di Cesare, che fu il primo romano a ricevere la dedicazione di un tempio, il tempio del divo Giulio (aedes Divi Iulii). L’astro si trova, non a caso, raffigurato anche sulle monete: interessante la moneta di età augustea (19 a. C.) che reca sul verso la scritta “DIVUS IULIU”, accompagnata dalla raffigurazione di una stella a otto punte con una sorta di coda superiore fiammeggiante. Lo stesso William Shakespeare cita l’episodio nella sua tragedia Julius Caesar (atto II, scena II):

“Calpurnia: Quando muoiono i mendicanti non si vedono comete;
I cieli stessi divampano alla morte dei principi”.

Shakespeare (1564-1616) e Ludovico Carracci (1555-1619) erano contemporanei: il bolognese era più anziano di 9 anni. Entrambi vivono da par loro la crisi dell’uomo del loro tempo, che ha distrutto e reso inservibile il sistema delle idee e delle certezze classiche rinascimentali. Il XVII secolo segna l’affacciarsi di un nuovo sistema scientifico (Keplero, Newton, Galileo, Halley, Cartesio) che il nostro pittore non poteva ignorare, avendo bottega in Bologna, una città universitaria, roccaforte dell’aristotelismo e della teoria geocentrica. Una città che vide Galileo concorrere e perdere la cattedra di matematica. Una città che era parte dello stato pontificio e aveva visto il suo cardinale, Gabriele Paleotti, impegnato in prima linea per sostenere quegli artisti disposti a creare immagini sacre devozionali e accostanti. E Ludovico l’aveva sempre ascoltato, recuperando, insieme ai cugini Annibale e Agostino, attraverso la fondazione dell’Accademia dei Desiderosi, poi Incamminati, gli esempi dei grandi maestri cinquecenteschi, rivisti alla luce del vero. Poi però Annibale e Agostino erano corsi dietro alle sirene romane e in provincia era rimasto solo lui a mandare avanti la scuola che segnerà 200 anni di arte italiana ed europea. Nel frattempo, Giordano Bruno, autore di De l’infinito universo e mondi era arso vivo sul rogo a Roma, in Campo dei Fiori nel 1600.

È un Ludovico Carracci sessantunenne che firma e data al 1616 l’ultima Adorazione dei Magi del nostro percorso, sala XXVIII [–> VAI ALLA SCHEDA OPERA]. Destinata a una confraternita penitenziale, quella della chiesa di Santa Maria dei Battuti a Crevalcore, in provincia di Bologna, l’opera segna la tarda maturità dell’artista.

 

Adorazione dei Magi, Ludovico Carracci,
Adorazione dei Magi, Ludovico Carracci, olio su tela, 1616, Pinacoteca di Brera, sala XXVIII, a sinistra dettaglio

Chiaramente distinguibili sono il corteo dei Magi a sinistra, in ombra, e il gruppo a destra, illuminato di luce sovrannaturale, con la Sacra Famiglia che riceve l’omaggio del più anziano re, in atto di offrire un prezioso contenitore che allude a una pisside per le ostie, mentre si è appena levato il turbante con la corona, su cui ancora appoggia la mano, e si è or ora inginocchiato. L’ambientazione è suggestiva e melanconica, poiché notturna, cosa insolita e rara in questo soggetto, ma cara all’ultimo Ludovico che dissemina le sue tele di cieli bui, scalfiti da una lama sorgente di luce, come in questo sublime caso. In alto, il cielo si squarcia e mostra un coro angelico che sorregge un cartiglio, oggi muto, che forse recava una scritta allusiva alla gloria dei cieli. Sotto il coro angelico e con una coda che indica direttamente il Bambino, ecco la stella!
Ma non si tratta né di una stella, né tantomeno di una cometa! Richiama piuttosto distintamente un’eclissi di sole.
Nessun evento astronomico agita l’immaginazione umana più di un’eclissi, sia essa di sole o di luna. Spesso viste come un inquietante presagio, le eclissi hanno cambiato il destino di battaglie e imperi, segnando la morte dei re, aiutando tra l’altro a individuare importanti date nella storia antica. In epoca moderna, le eclissi hanno contribuito a dimostrare la validità di alcune delle più grandi scoperte scientifiche.
Un’eclissi di sole si verifica quando la luna passa tra la Terra e il Sole, mentre un’eclissi di luna si ha quando la luna attraversa l’ombra della Terra. I Vangeli di Matteo, Marco e Luca alludono a un’oscurità nel giorno della crocifissione di Gesù che sembrerebbe un’eclissi solare. Tuttavia, il Vangelo di Giovanni non cita un evento simile. Alcuni studiosi hanno però notato che un’eclissi solare totale si era verificata in Medio Oriente il 24 novembre del 29 d. C. Si ritiene però per tradizione che Cristo sia stato crocifisso intorno alla Pasqua ebraica contraddistinta dalla luna piena mentre le eclissi solari si possono verificare solo nella fase di novilunio. Forse allora i racconti evangelici possono essersi ispirati all’eclissi parziale lunare del 3 aprile del 33 d. C.

Il 12 ottobre 1605 un’eclissi solare totale oscurò il cielo, dopo un’eclissi lunare di due settimane prima. L’evento, visibile sicuramente dall’Inghilterra è citato dal nostro William Shakespeare nel Macbeth (atto II, scena IV):

“Ross: Per l’ora è giorno, eppur l’oscura notte soffoca la pellegrinante lampada. È la notte che ha preso il predominio, o è la terra che si copre il volto per vergogna nel tempo che baciato dovrebb’essere dalla viva luce”?

e nel Re Lear (atto I, scena II):
“Gloucester: Queste recenti eclissi del sole e della luna non ci preannunciano nulla di buono. Benché la scienza naturale le spieghi razionalmente in un modo o nell’altro, la natura stessa rimane colpita dalle conseguenze: gli affetti si raffreddano, l’amicizia cessa, i fratelli si inimicano. Sommosse nelle città, discordie nelle nazioni, tradimento nelle corti e s’infrange il vincolo tra figlio e padre”.

Probabilmente questo fenomeno fu visto e osservato anche dal nostro Ludovico Carracci che ne fu così colpito da riportarlo nel suo capolavoro braidense, secondo quell’inclinazione per l’osservazione del vero e del dato naturale che non aveva mai tradito fin dai tempi giovanili dei primi lavori in tandem coi cugini Annibale e Agostino. In questo caso, l’osservazione diretta dell’evento astronomico e la sua infausta fama, ben si sposavano con il presagio dell’oscurità evangelica che Gesù avrebbe vissuto al momento di spirare sulla croce, coniugandosi alle meditazioni sulla Passione della confraternita, cui era destinato il dipinto. Un tono melanconico, notturno, di addio, si respira del resto in tutto il quadro, dove, ancora una volta, sembrano riecheggiare i versi di un sonetto “astronomico” del Bardo:

“La nascita, una volta nel regno della luce,
striscia verso la maturità,
dove eclissi maligne lottano contro il suo splendore,
e il tempo si riprende i doni che generosamente aveva dato”.

Siamo davanti al commiato dalle scene di un grande, il nostro Ludovico Carracci, che avverte la sua fine imminente (di lì a tre anni) consapevole di essere presto soppiantato dal classicismo aulico di Guido Reni. Non prima, però, di aver nutrito gli umori di Guercino.

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