I servizi educativi
I servizi educativi della Pinacoteca di Brera lavorano per valorizzare il proprio museo in quanto ambiente educativo dotato di proprie specifiche caratteristiche e per renderlo accessibile al più ampio numero possibile di persone.
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Sofia Incarbone
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Leonardo fashion stylist
alla corte del Moro
Forse non tutti sanno che la corte milanese era una capitale della moda, del lusso e dell’arte. Il duca Ludovico il Moro aveva chiamato infatti presso di sé l’architetto e pittore Donato Bramante e soprattutto Leonardo da Vinci che di fatto cambiò per sempre il corso della pittura milanese, influenzando sia allievi diretti che seguaci grazie alla sua pittura sperimentale.
Ma alla corte del Moro Leonardo era anche regista di feste celebri come quella del Paradiso del 1491 e addirittura fashion stylist, avendo curato e progettato nei dettagli il costume da torneo del conte Galeazzo Sanseverino.
A dettar legge in fatto di moda a Milano è però la duchessa Beatrice d’Este. Celebre è del resto la sua passione in questo campo: nel solo 1491 si fa confezionare 83 abiti, sotto le sue direttive, in un ideale gara tra regine del gusto, oggi diremmo modaiole o ancor meglio influencers, tra lei e la sorella, quella Isabella d’Este, duchessa di Mantova, che non a caso ospiterà anche lei Leonardo. A loro due si devono non per nulla l’invenzione di acconciature e di tante altre innovazioni della moda dell’ultimo Quattrocento.
Si narra addirittura che Beatrice sopportò la presenza di Cecilia Gallerani, l’amante ufficiale del marito Ludovico finchè il duca non ebbe la sventatezza di regalare due abiti identici a lei e alla moglie. La celebre dama ritratta da Leonardo con l’ermellino fu di conseguenza prontamente cacciata dalla corte sforzesca.
Pala Sforzesca
Lo sfarzo e l’eleganza della corte di Ludovico Sforza detto il Moro sono manifeste nella cosiddetta Pala sforzesca, conservata nella Pinacoteca di Brera. Proveniente dalla chiesa milanese di Sant’Ambrogio ad Nemus la pala, dipinta circa nel 1494, schiera i quattro dottori della Chiesa: Sant’Agostino, San Gerolamo, San Gregorio e infine Sant’Ambrogio, patrono della città di Milano, nell’atto di presentare il duca, già reggente per il nipote Gian Galeazzo ma di fatto con pieni poteri, Ludovico il Moro e sua moglie Beatrice d’Este alla Vergine con in braccio il Bambino benedicente. Insieme ai due duchi e inginocchiati con loro sono presentati i figli della coppia, Ercole Massimiliano, il maggiore, e Francesco II Sforza, ancora in fasce.
Al fascino leonardesco, che permea di sé tutta Milano, non sfuggì nemmeno l’anonimo maestro che dipinse questa tavola: soprattutto la figura della Vergine, realizzata con uno sfumato un po’ pesante dal punto di vista chiaroscurale, memore di precedenti esperienze di pittura lombarda (e con il suo bel sorriso, vero e proprio marchio di fabbrica dell’artista toscano, certamente meno enigmatico che nel modello originale) e il vivace Bambino, in una posa che deriva direttamente dal disegno con la Madonna del gatto del genio di Vinci.
I Dottori della Chiesa sono realizzati con un vivace chiaroscuro che ne esalta la fisionomia, mentre i duchi e il loro seguito sono raffigurati come devoti inginocchiati di profilo, secondo una concezione arcaica del ritratto che risale alla monetazione romana ma che lo stesso Leonardo aveva scardinato proprio alla corte del Moro con celebri esempi di ritratti caratterizzati dai moti dell’animo. Ci sono però anche influssi di Bramante nella fisionomia dei Dottori e nell’architettura, immersa in un bagno d’oro tipico della tradizione lombarda.
Beatrice d’Este
Colpisce subito il ricco abbigliamento sfoggiato da Beatrice d’Este: una vera e propria esibizione di sfarzo e potere e influenzata dalla vistosa moda straniera, specie spagnola.
Beatrice porta i capelli lisci con una scriminatura (riga) nel mezzo a dividerli in due bande laterali che coprono le orecchie, secondo una moda tipica delle lussuose corti padane negli anni a cavallo tra XV e XVI secolo quando Ferrara, Mantova e appunto Milano raggiungono il loro massimo splendore, incarnato al meglio dalla duchessa nella Pala sforzesca con un vivace tocco decorativo in più. Sulla fronte troviamo la lenza o ferronière, in genere di seta, dal soprannome dell’amante del re di Francia Francesco I, che si diceva essere figlia di un mercante di ferrami, in passato riconosciuta nel ritratto di dama del Louvre di Leonardo soprannominato perciò La belle ferronière.
Attualmente l’effigiata è variamente identificata in Lucrezia Crivelli, una delle favorite di Ludovico il Moro, nella stessa Beatrice o ancora in Isabella d’Aragona, ma una cosa è certa: la dama è milanese e a rivelarcelo è proprio la moda esibita da capigliatura e abito.
La nuca è ornata da una cuffietta con perle, molto amata da Beatrice, ulteriormente impreziosita da un gioiello da testa, un fermaglio con un grosso rubino e uno zaffiro montati entrambi su oro e attorniati da tre grosse perle. Simili gioielli sono tipici del Rinascimento: li troviamo ad esempio nella celeberrima Fornarina di Raffaello. La caratteristica che colpisce subito a un primo sguardo è la lunga treccia della duchessa. Si tratta della treccia, decorata con un nastro bianco, che deriva dalla moda spagnola: Beatrice la portava fin da bambina alla corte napoletana del nonno Ferrante d’Aragona in cui era cresciuta.
Qui alla corte di Milano l’elaborata capigliatura prende il nome dialettale di coazzone e viene addirittura attribuita alla Vergine orante del 1479, attribuita Pietro Antonio Solari, scultura oggi collocata non a caso nella preziosa Cappella Ducale del Castello Sforzesco, splendida roccaforte ma anche corte sfarzosa del Moro e della sua consorte.
L’abito indossato da Beatrice d’Este è una camora sontuosa, indossata senza sopravveste né mantellina, che esibisce la sua struttura costruita sul modello formato dal busto rigido che cinge la vita cui è cucita la gonna ampia e prolungata da un breve strascico già sostenuta, come denuncia la linea allargata, dalla cosiddetta faldia interna. Si tratta di una sottogonna eseguita con materiale rigido, tessuto con crini, su cui venivano cuciti, a varie distanze, dei cerchi di vimini o di bambagia. Entrambe le caratteristiche della veste, busto e faldia, provengono dalla moda spagnola.
La scollatura della camora, di forma quadrangolare e non troppo profonda è ampiamente affermata in area padana, toscana e nelle signorie di Rimini e Bologna. La sua diffusione è testimoniata dai ritratti dell’epoca, anche se gli esempi più noti sono ovviamente dipinti da Leonardo proprio nell’entourage del Moro.
La scollatura di Beatrice è appena velata da una trasparente gorgiera, profilata da un nastro al quale sono applicati gruppi di perle a tre a tre, come la lunga collana intervallata di elementi in nero. Le gorgiere servivano a ravvivare la scollatura o a limitarla: in genere di velo, esse potevano essere di vari colori.
Le maniche lunghe e strette, legate alla spalla, spesso erano eseguite con tessuti diversi dall’abito, di frequente anche più preziosi. Esse potevano comunque essere cambiate essendo staccate dall’abito e abbinate a piacere. Qui la duchessa stranamente indossa le maniche dalla stessa stoffa e fantasia della veste: una ricca listatura verticale con inserti di velluto di tessuti diversi, bruni, azzurri e di preziosissimo filato dorato: in esso la lamella metallica è avvolta a spirale attorno a un supporto, la cosiddetta anima, in filo di seta, lino o cotone. La scelta inusuale sottolinea proprio la fantasia dell’abito, a inserti verticali, la preferita di Beatrice dopo la nascita del primogenito Ercole Massimiliano nel 1493 per slanciare la figura appesantita dalla gravidanza. E chissà che la vera “stilista” ante litteram di tale sfarzoso vestito non sia proprio la duchessa in persona, definita dai contemporanei non a caso “novarum vestium inventrix”.
Le finestrelle, i tagli nelle maniche lungo il braccio e lungo la linea del gomito facilitano i movimenti in una data in cui la tecnica sartoriale non aveva ancora risolto il problema delle maniche che erano staccate dall’abito (da qui il famoso proverbio: “è un altro paio di maniche”). Attraverso le aperture notiamo lo spumeggiante effetto dei bianchi lini della camicia sottostante, status symbol ed emblema di ricchezza, oltre che indumento intimo a tutti gli effetti.
Ma ciò che stupisce di più sono gli estrosi e decorativi nastri rosati annodati a fiocchetto oppure lasciati liberi di ondeggiare al vento, usati come allacciatura alla spalla o, lungo il braccio, alle finestrelle, secondo un gusto tutto milanese di cui qui, e ancora una volta forse non a caso, Beatrice d’Este ci fornisce il primo esempio che molte dame seguiranno.
E le scarpe? L’abito è lungo fino a terra e con lieve strascico, quindi nella Pala sforzesca non si vedono, ma potrebbero essere simili alle pianelle di stoffa con zeppa, una sorta di antenate delle espadrillas moderne, conservate al Museo della calzatura di Vigevano, classificate infatti come di Beatrice d’Este.
Queste calzature sono simili a quelle indossate dalla duchessa nel suo monumento funebre dello scultore Cristoforo Solari che la ritrae giacente accanto al Moro, suo sposo, oggi alla Certosa di Pavia. In origine la scultura era stata destinata dal duca a mausoleo in Santa Maria delle Grazie a Milano, capolavoro architettonico rinascimentale di Donato Bramante che conserva nel refettorio il Cenacolo di Leonardo da Vinci. Il mecenate di tutto il complesso era il Moro: sotto il suo ducato Milano abbandona i bagliori dorati del tardogotico per entrare in quella Maniera moderna celebrata da Vasari citando proprio Leonardo per primo nelle sue Vite degli artisti. La capitale del ducato è dunque all’avanguardia in campo artistico (e della moda).
Ludovico il Moro
Ludovico il Moro è sempre molto attento all’incidenza politica degli elementi di moda che concorrono all’elaborazione dell’immagine ufficiale, specie qui nella Pala sforzesca, destinata a celebrare quel diploma di investitura imperiale, arrivato finalmente nel 1494, che ne riconosceva il potere ducale su Milano, esercitato ufficiosamente ormai da anni. Il “duchino”, nipote del Moro, era ormai uscito di scena poiché era morto l’anno prima. Nella tavola braidense, il duca di Milano sceglie di farsi ritrarre con un robone azzurro, dal colletto a cinturino e dalle maniche lunghissime e larghissime al polso, foderato in rosso, indossato sopra le attillate calzebrache.
Oggi a San Pietroburgo, al Museo dell’Hermitage, è ancora conservato un frammento di tessuto di origine sforzesca, molto simile a quello della veste del Moro: si tratta di un preziosissimo damasco alessandrino. E forse proprio di damasco alessandrino è la veste di Ludovico o magari di quel “turchino” che tanto spesso ricorre nella descrizione delle vesti e degli apparati della corte milanese nei primi anni novanta, gli stessi anni animati dalla presenza di Beatrice d’Este, sempre impegnata a festeggiare matrimoni, nascite, giostre, ospiti, attorniata dai suoi nobili cortigiani ma anche da artisti, letterati, poeti e musici.
Il magnifico guardaroba del Moro ha la caratteristica di essere contraddistinto da una vasta fantasia decorativa di imprese: disegni e motti di famiglia che servono a comunicare il proprio potere e la propria continuità dinastica, ribadendone la legittimità di governo. Le imprese variano da quelle già assunte dai primi duchi di Milano alle molte di sua invenzione: con esse Ludovico fa tessere i suoi abiti, per mezzo di ricami e pietre preziose. E infatti il robone azzurro del nostro quadro reca la fantasia ripetuta di un semprevivo, soggetto a numerose varianti quali porri, carciofi o ancora palmette e ispirato al sempervivum tectorum, una pianta perenne che cresce in luoghi aridi e impervi. Si tratta di un’impresa di famiglia che, corredata dal motto “MIT ZEIT” (“con il tempo”), risale al capostipite della dinastia, il condottiero Francesco Sforza, padre di Ludovico il Moro.
Ercole Massimiliano
Ma l’abito maschile più nuovo, più alla moda, è il saio, o saione, indossato dal primogenito Ercole Massimiliano: uno dei primissimi esemplari, destinato in seguito a diffondersi dal primo Cinquecento. Esso si contraddistingue per le larghe liste di diverso colore, in filato d’oro e velluto, richiamando in maniera vistosa quello della madre, la duchessa Beatrice d’Este, forse un tipo di decorazione di origine spagnola.
Il duca Ludovico il Moro ha anche un simbolo prediletto e personalissimo di cui può fregiarsi solo lui: le more. Non si tratta di una vera e propria impresa, ma di una sorta di gioco di parole tra la parola murun, ovvero morone, in dialetto lombardo gelso, e Moro. Questo soprannome fu forse attribuito fin da piccolo a Ludovico a causa della sua carnagione scura ma il duca lo adotterà ben volentieri per enfatizzare l’importanza del suo ruolo nell’intensificazione della coltura del gelso, fonte primaria del successo dell’industria serica del ducato ambrosiano. Ma anche a significare in maniera emblematica che la pianta che fiorisce per ultima dà il frutto per prima: così Milano, ultima arrivata sulla scena serica, in pochi decenni era riuscita a primeggiare.
En passant, per concludere, il coazzone è stato recentemente rivisitato dalla hairstylist Justine Marjan. La top model Ashley Graham infatti, sul red carpet del Met Gala 2019, indossava una lunga coda iper-accessoriata.
Beatrice docet.
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