Colazione da Tiffany in Pinacoteca
Gioielli d’arte nei dipinti di Brera
“Io vado pazza per Tiffany… specie in quei giorni in cui mi prendono le paturnie”
afferma Audrey Hepburn alias Holly Golightly nel celeberrimo film. E chissà cosa avrebbe detto passeggiando per le sale di Brera!
Si sarebbe accorta con entusiasmo che la Pinacoteca, al pari di una delle più blasonate gioiellerie del centro storico di Milano, risplende nelle sue sale di ori e monili dal raffinato design in cui sono incastonate o pendenti parecchie pietre preziose.
Subito appena entrati in galleria, ci aspetta una vera e propria principessa, elegantissima con la sua regale pelliccia di ermellino, incoronata e in atto di ricevere da Gesù Bambino in persona nientemeno che un anello nuziale.
Protagonista di queste nozze mistiche è Santa Caterina d’Alessandria. Il rito, raffigurato dal Maestro di Mocchirolo, prevedeva un anello in oro a banda liscia, quello che noi oggi e solo a partire dalla seconda metà del Seicento chiamiamo fede. Precedentemente, ogni sorta di anello poteva essere destinato a questa funzione e, infatti, nell’affresco trecentesco reca montata una gemma trasparente, probabilmente un diamante che, con la sua inscalfibile durezza di lavorazione e intaglio, ha da sempre rappresentato l’amore imperituro ed eterno, come anche la passione mistico-religiosa. Solo nel 1614 il Rituale Romanum imporrà la mano sinistra a sede dell’anello nuziale: la nostra santa Caterina invece porge al Bimbo la mano destra! Persino la consuetudine di portare la fede al dito anulare non è scontata e si affermerà infatti assai tardi.
La Vergine stessa, invocata nelle litanie mariane in qualità di Regina Coeli, a buon diritto viene raffigurata nei polittici e nelle Sacre conversazioni con la testa coronata, come nelle diverse Incoronazioni della Vergine di Brera, tutte gotiche o tardogotiche.
Motivi floreali o trilobati, rubini, zaffiri e perle arricchiscono la meravigliosa Madonna della candeletta di Carlo Crivelli, in sala XXII.
L’artista rinascimentale, veneto trasferito nelle Marche, dipinge ancora su fondo oro nel 1490, data della nostra tavola. Lo sfondo aureo era ottenuto battendo sottilissimamente in forma di foglia le monete d’oro zecchino che erano poi applicate sulle tavole. L’operazione era riservata ai battiloro e anche altri particolari potevano essere realizzati in foglia oro, come ad esempio le aureole. I dipinti medievali sono quindi polimaterici, per usare un termine spesso riservato all’arte contemporanea, e lasciano solo intuire la stretta connessione tra pittori e orefici, testimoniata tra l’altro dalla formazione da orefice di molti importanti pittori, come Bartolomeo Suardi, detto il Bramantino, soprannome datogli a causa del successivo alunnato presso Donato Bramante, avvenuto a Milano.
Non a caso a Milano, ancora oggi, la centralissima via degli Orefici, con le vicine vie degli Spadari e degli Armorari, restituisce una, pur vaga, idea dello splendore della corte dei Visconti e quindi degli Sforza che hanno dominato la metropoli ambrosiana, vera e incontestata capitale rinascimentale del lusso.
Bianca Maria Visconti, ultima della sua casata e sposa di Francesco Sforza, nuovo signore di Milano, ci appare in un raffinatissimo ritratto di profilo, di scuola lombarda del Quattrocento, già attribuito da fonti autorevoli al cremonese Bonifacio Bembo.
Sulla sommità della spalla sinistra indossa un elaboratissimo gioiello “figurato” che ci viene descritto con precisione in un inventario dedicato ai suoi monili. Si tratta di “un balasso in tavola in scosso de uno angelo et uno diamante ad amandoleta et duoe perle tonde”. Anche le vesti potevano essere decorate con pietre, perle o lamine metalliche e fonti storiche dell’epoca confermano che le maniche non erano affatto identiche. Una era più ricca di motivi o applicazioni per mostrare sempre il lato migliore nei ritratti ufficiali e nelle occasioni di rappresentanza.
Prerogativa tuttora imprescindibile nelle inquadrature delle primedonne in TV e nell’imperante pratica dei selfies!
In seguito, sotto il ducato di Ludovico il Moro, la società letteraria formatasi attorno a lui e alla moglie Beatrice d’Este, riprende la mitica età dell’oro di Francesco Sforza, iniziatore della dinastia di cui il Moro si sente il legittimo erede. In tale clima, pervaso da esigenze suntuarie marcate in senso squisitamente politico, s’inserisce la figura di un genio a tutto tondo come Leonardo, attraverso la messa a punto di apparati effimeri, vestiti e anche gioielli. Pur non essendosi conservati preziosi progettati direttamente dal maestro, sappiamo della diffusione nella coeva oreficeria milanese di temi a lui cari e possiamo essere certi che alcuni giochi letterali, e letterari, coniati dall’illustre vinciano sul tema della pianta di gelso, emblema del Moro, vennero tradotti in monili preziosi, caratterizzati da imprese dinastiche e araldiche:
O MORO, io MORO se con la tua MORAlità non mi aMORI tanto il vivere m’è aMARO.
(Codice di Madrid, II, 141r)
La coppia ducale compare in veste ufficiale nella cosiddetta Pala sforzesca, del 1494, in sala XI: è soprattutto Beatrice ad attirare la nostra attenzione per la sua vistosa ricercatezza.
Indossa una rete o ligame da testa che offre il pretesto alla concentrazione strabiliante di ingenti quantità di perle di gran moda all’epoca; un documento relativo al corredo nuziale di Ippolita Sforza menziona addirittura ben 67 perle “da portare al fronte”, una sorta di precursore delle lencie. E una lenza, in tessuto serico, è indossata sulla fronte proprio dalla nostra Beatrice. L’elaborata acconciatura da lei sfoggiata è un coazzone: sostanzialmente estraneo all’area fiorentina, giunge dall’area spagnola a quella padana per vie dinastiche, portato da Isabella d’Aragona, moglie di Gian Galeazzo Sforza. Adottato prontamente da Beatrice, che aveva un infallibile fiuto modaiolo, venne da lei imposta alle dame più in della corte e perfezionata nei dettagli attraverso la combinazione con una piccola cuffia preziosa sulla nuca, con la lenza e infine con la guaina entro cui raccogliere la lunga treccia, spesso avvolta da fili di perle e gemme. Inoltre in questo caso, la cuffietta di perle è arricchita ulteriormente da un fermaglio “da zuffo” (da ciuffo), un gioiello previsto per ornare le acconciature o i copricapi, qui composto da un grande balasso rettangolare, più a buon mercato dei rubini, sempre rosso, ma più pallido, che sormonta uno zaffiro più piccolo, attorniato da tre grosse perle tonde. Il balasso, nello specifico, è uno spinello di varietà rossa: il nome viene dal luogo di provenienza, il Balascian ovvero Badakhshan, in Afghanistan, dove si trovavano le mitiche miniere dei faraoni egizi, attive da 6000 anni. Sapevate ad esempio che l’altisonante “Black Prince’s Ruby” da 170 carati incastonato nella parte anteriore della corona imperiale britannica è in realtà uno spinello balascio? Non pochi sono comunque ancor oggi i fans di questa pietra, riuniti addirittura su Facebook nel gruppo “Spinelover”!
Torniamo alla duchessa di Milano, o meglio al gran numero di gioie da lei esibite. Oltre a una collanina aderente a motivi geometrici, probabilmente di seta, le perle arricchiscono, sempre a gruppi di tre, sia lo scollo quadrato della veste di Beatrice, sia la lunga collana, da cui si intravede pendere probabilmente un cammeo molto in voga nella Milano sforzesca. Grazie alla committenza del Moro rivolta ad artisti del calibro di Leonardo e Bramante, la città diviene centro artistico all’avanguardia, vera e propria capitale del Rinascimento, favorendo la ripresa di motivi e richiami antichizzanti. E chissà se la duchessa indossa un cammeo con il ritratto di profilo del marito, sul genere di quello citato dal Vasari nelle sue Vite dedicate degli artisti, inciso da Domenico de’ Cammei su un vero rubino, oggi conservato a Vienna! Un omaggio coniugale?
Tornando all’uso delle perle, sino agli inizi del Cinquecento, si prediligono di forma tonda per collane e acconciature, mentre quelle piriformi o “a modo de una zucheta” sono quasi sempre impiegate come pendenti. Lo zaffiro è ritenuto di prestigio per tutto il Quattrocento; in seguito si sviluppa l’impiego dello smeraldo e, infine, col Seicento barocco, trionfa il diamante, ancora oggi permeato da un’aura quasi mitica. Del resto, “Diamonds are a girl best friends”, cantava Marilyn!
Ma nel Rinascimento, e oltre, anche il sesso forte si ingioiellava: il duca Ludovico il Moro indossa un’importante catena di anelli d’oro intrecciati, mentre il piccolo Francesco Sforza, secondogenito, incredibilmente inginocchiato, benché ancora avvolto da un bozzolo rigido di fasce, ha il capo coperto da una preziosa cuffia aderente di tessuto auro-serico, decorata da una griglia di velluto con applicazioni di perline e piccole gemme. Infine, occorre menzionare almeno di sfuggita i preziosissimi e raffinatissimi paramenti liturgici dei quattro dottori della Chiesa, con la sola eccezione di san Gerolamo. Tra filati dorati, fermagli polilobati, pastorali aurei e mitrie decorate da pietre dure, ce n’è davvero per tutti i gusti!
A proposito di pietre dure, il loro uso non era solo dettato dalla moda ma anche dal loro significato simbolico, legato all’astrologia e alla mitologia. In Pinacoteca si conserva la straordinaria Venere del maestro di Caravaggio, Simone Peterzano, del 1570 circa (sala XV).
Prima di votarsi interamente alla pittura sacra di sapore controriformato secondo i dettami di san Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, il Peterzano sfodera tutta la sua seducente maestria pittorica in questo capolavoro di ascendenza veneteggiante che vede protagonista di un paesaggio bucolico una dea dell’amore seminuda, assopita con il viso appoggiato alla mano destra, del tutto inconscia dell’enorme attrazione erotica che esercita su un satiro, dal volto grottesco e bestiale, e un fauno. La scena è osservata da suo figlio, il piccolo Cupido che regge l’arco, ma ha le frecce abbondonate per terra. Che c’entra, vi chiederete, col tema dei gioielli? C’entra, c’entra, perché la bellissima, bionda Venere, lasciata su un albero una cintura gioiello auro-serica con inserti di perle, sdraiatasi sulle sue stesse vesti, indossa solo un braccialetto e degli orecchini di perle piriformi, frequentissimi nelle immagini femminili cinquecentesche, in particolare nelle Veneri di scuola veneziana. Solidale con la cosmologia acquatica e con il simbolismo sessuale, la perla è strettamente femminile; in Grecia è emblema di amore e matrimonio, e qui si ricollega direttamente al mito di Venere, tradizionalmente l’equivalente della greca Afrodite, che nasce dal mare, dalla schiuma, presso Cipro (dal greco aphros che significa proprio schiuma).
Ugo Foscolo vi allude nel suo meraviglioso sonetto dedicato alla madrepatria Zacinto con versi sublimi:
(…) Nell’onde
Del greco mar, da cui vergine nacque
Venere, e fea quell’isole feconde
Col suo primo sorriso (…)
Secondo Omero, Venere sarebbe nata da una conchiglia uscita dal mare (si pensi al celeberrimo Botticelli), proprio come la perla è prodotta da molluschi bivalvi, in genere le ostriche, e avrebbe perciò le perle nella sua parure.
Le simboliche perle compaiono nel dipinto di Peterzano come orecchini, ma lo sapevate che solo dalla metà del Cinquecento questi accessori sono appaiati, e non indossati singolarmente? E che erano indossati singolarmente anche dagli uomini nobili per tutto il Seicento? In particolare, però, negli inventari dei corredi, sono citati esplicitamente con il termine “oregini” gli esemplari costituiti da anelli d’oro muniti di perle pendenti, come questi.
Il braccialetto, invece, è una vera e propria firma di Simone Peterzano, figlio dell’orefice Francesco, di origine bergamasca ma da lungo tempo trasferito a Venezia, dove probabilmente nasce lo stesso Simone, che si fregerà sempre orgogliosamente del titolo di “Titiani alumnus”.
Si tratta di un modello di bracciale, forse di lontana ascendenza bizantina, a placche con perle alternate a diverse pietre dure incastonate (si riconoscono ad esempio rubini e zaffiri) che ricorre ad adornare le belle membra di tutte le donne del pittore. Non solo… questo modello di braccialetto o, per dirla con Omero, armilla, è presente anche in tutte le creature femminili mitologiche del caposcuola veneziano, Tiziano, dalla Venere con Cupido e organista di Berlino alla Danae del Prado. Una sorta di logo: potremmo parlare in termini moderni di un vero e proprio copyright! Tanto è vero che la gioielleria contemporanea, sotto la denominazione “Indossare Tiziano”, produce una linea di bracciali ispirati proprio ai dipinti del genio veneto.
Infine, forse non sapete che preziosissime pietre dure, come il lapislazzuli, erano sminuzzate e utilizzate come pigmenti per impreziosire i dipinti: in tal modo fu realizzato, a spese del pontefice, il cielo della Cappella Sistina di Michelangelo… ma, nel nostro piccolo, anche la Venere braidense impiega questo splendido, profondo blu! E, dulcis in fundo, come non menzionare l’esuberante cornice di gusto tutto manierista, tra riccioli e motivi di volti con nasi importanti, un richiamo alla poetica del grottesco tra il milanese Arcimboldo e i Rabisch del Lomazzo, realizzata in foglia d’oro?
Per restare sempre a Milano, in quello stesso ambiente culturale di Giovan Paolo Lomazzo, sicuramente frequentato da Simone Peterzano al suo arrivo in città, non possiamo non menzionare lo straordinario autoritratto del 1568 proprio del Lomazzo in veste di “abate” (Nabas), col soprannome di Zavargna, dell’Accademia poetica dialettale della Val di Blenio (oggi in Canton Ticino ma allora in Lombardia). A questo circolo culturale si rifaceva Zanni, maschera del facchino bergamasco presente nella Commedia dell’arte, richiamando nel nome la zona di provenienza dei facchini milanesi.
Il Lomazzo indossa un gran cappellone di paglia coronato di vite e alloro, e regge una bacchetta aguzza, avvolta nell’edera, che allude al tirso di Bacco, alla gloria poetica e all’ispirazione che proviene dall’ebbrezza dionisiaca. Indossa inoltre un mantello di pelliccia e un anello d’oro, mentre regge un compasso e una tavola, sulla quale sembra essere incollata una pergamena. Ma ciò che ci interessa ancor di più è la medaglia sul copricapo che reca un’impresa, come voleva la moda a partire da fine Quattrocento. Diffusa anche nel vestiario femminile e in numerosi centri nel Cinquecento, inizialmente in oro smaltato, come qui, e più tardi in cammeo o pietre scolpite, la medaglia raffigura nel dipinto il cosiddetto “galiglion” (galeone) con foglie di vite. Si tratta del recipiente più volte celebrato dallo stesso Lomazzo nei suoi componimenti poetici, scritti in dialetto, in relazione a Bacco e al vino. Tematiche ed effetti cromatici dell’opera rimandano chiaramente all’arte tonale veneta, in sintonia col linguaggio di Peterzano, e all’idea di furore creativo melanconico, sulla scia dell’incisione omonima di Dürer. La tela è corredata da un’iscrizione esplicativa sul parapetto, dal quale, con un espediente ancora una volta tipico della pittura lagunare, Zavargna/Giovan Paolo si affaccia. È interessante notare che alcuni critici hanno visto nel quadro un precedente del Bacchino malato del milanese Caravaggio.
Sappiate inoltre che in tempi in cui il lavarsi era operazione non così frequente e gli odori forti e ributtanti assai diffusi, profumi ed essenze bruciati o portati sulla persona erano di gran voga sotto forma di bracciali, orecchini, bottoni profumati, sfruttando paste odorose tra cui il muschio, l’ambra grigia o lo zibetto, tutti di origine animale, come nel paternostro, forse scambiato tra i due Amanti di Paris Bordon.
Il curioso nome dell’oggetto, a volte usato come cintura, deriva dalla sua forma a grani come un rosario, non a caso emblema di castità. Contrariamente all’interpretazione corrente che ha identificato nella donna di Bordon una cortigiana, lo scambio tra i due innamorati sarebbe da leggersi come una promessa di nozze e il terzo personaggio allora rappresenterebbe il cosiddetto “compare d’anello”, ovvero il testimone.
Ma sicuramente nella nostra Pinacoteca, le parure più strabilianti sono quelle del corteo angelico della Pala di Brera di Piero della Francesca, capolavoro imponente che troneggia nel Sancta Sanctorum della galleria, quello scrigno di tesori artistici costituito dalla sala XXIV.
Veri e propri tesori sono indossati al collo e sul capo dei quattro angeli apteri, in altre parole privi di ali, che, con i loro gioielli assolutamente contemporanei, paiono essere appena usciti dal Palazzo Ducale di Urbino, dimora principesca del signore della città, Federico da Montefeltro, ritratto in armatura e inginocchiato appena sotto di loro. Le celesti creature sfoggiano fermagli a grappolo, collane con sfere di cristallo e collari con motivi floreali in pietre preziose che ritroviamo anche nella ritrattistica coeva e in particolare nel Ritratto di Battista Sforza, moglie amatissima del duca Federico, appena defunta in seguito al parto del tanto agognato erede maschio, Guidobaldo da Montefeltro.
Un’affascinante ipotesi vede nella Vergine e nel Bambino ritratti idealizzati della moglie e del figlio dolorosamente appena perduti. Non a caso, il piccolo Gesù intento a riposare indossa il più potente degli amuleti secondo la tradizione, specie sotto forma di ramo: il corallo. La funzione magico – terapeutica dei gioielli è comune e generalizzata, specie per donne e bambini, considerati del resto come soggetti più deboli e quindi più bisognosi di amuleti e talismani. La storia simbolica e mitologica del corallo è complessa e stratificata. Secondo Plinio, il corallo deriva dal sangue della Gorgone, decapitata da Perseo, pietrificatosi in mare; in seguito, con l’avvento dell’era cristiana, è interpretato simbolicamente come allusivo al sangue del Salvatore. Nella Pala di Piero, dalla collana di corallo pende un ramo, anch’esso dello stesso materiale che potrebbe richiamare la futura ferita al costato di Gesù sulla croce. Si distingue inoltre la splendida croce in oro zecchino e cristallo di rocca, opera di altissima oreficeria, retta da san Francesco.
Ricordiamo infine la celebre designer di gioielli Michelle Ong che, proprio ispirandosi alla tavola braidense di Piero della Francesca, ha presentato in Pinacoteca una preziosa collana con pendente a goccia in pavè di diamanti.
Non esiste tuttavia solo chi dipinge nelle sue opere i gioielli ma anche chi crede “che non sia pittura se prima non si concreti in un materiale raro ed eletto (il misticismo medievale delle pietre e delle gemme)” per parafrasare Roberto Longhi, il più grande storico dell’arte di sempre. E’ il caso della sublime “officina ferrarese”, presente a Brera con Francesco del Cossa ed Ercole de Roberti, nelle sale XX-XXI. I loro personaggi vestono panneggi, di nuovo con le parole illuminanti di Longhi, “nel materiale immaginato dei materiali più incorruttibili” che non possono “che torcersi e serrarsi, quasi in turbini impietrati”, un vero e proprio campionario di glittica incisa.
Vogliamo lasciarvi nel segno di Napoleone, già appassionato sostenitore della Galleria di Brera: dopo essersi proclamato imperatore dei francesi nel 1804, intuisce l’importanza decisiva della grandeur per la legittimazione del potere, recuperando e rimontando i gioielli della corona, trafugati durante la Rivoluzione, e circondandosi dei migliori gioiellieri sulla piazza. Non tutti conoscono però la sua predilezione per i medaglioni con miniature, da lui amatissimi. Con l’avvento, nell’Ottocento, della Restaurazione e del Romanticismo, movimento artistico, letterario e filosofico che antepone la spiritualità e la forza delle emozioni alla ragione, le miniature troveranno amplissima diffusione e saranno definite gioielli “sentimentali”. Ritroviamo una di queste miniature con il ritratto dell’amato, partito per le guerre d’indipendenza dagli austriaci, nel Triste presentimento dell’omonimo quadro di Gerolamo Induno, pittore e patriota presente sulle barricate con il fratello Domenico, anch’egli pittore.
Non uno smartphone, come i nostri occhi contemporanei sarebbero portati, ingannandosi, a credere a prima vista!